Ieri, quando si è saputo delle minacce a Dadò, ci saremmo aspettati una reazione di condanna corale e tempestiva. Al di là degli steccati ideologici
Sono tempi cupi per le istituzioni ticinesi, fra incidenti stradali da chiarire, funzionari incaricati di garantire la sicurezza e il rispetto della legge indagati, presunte frodi elettorali. E temi che dal contenzioso politico approdano (troppo) spesso, di ricorso in ricorso, a quello giudiziario. Come se alla magistratura spettasse il compito di risolvere ogni conflitto. Eppure non deve essere solo il codice penale a dettare le regole della convivenza civile. Occorre pure avere quel senso dello Stato che eviterebbe l’ormai frequente intervento di procure e tribunali. Occorre pure saper distinguere tra comportamenti opportuni e comportamenti non opportuni. Senz’altro inopportuno è il silenzio che accompagna gesti che non possono essere in alcun modo tollerati. Un mutismo preoccupante, che rende questi tempi ancor più cupi.
Ci riferiamo al silenzio dei partiti in generale e in particolare al silenzio dei vertici del Gran Consiglio e del Consiglio di Stato: né i primi né parlamento e governo hanno avvertito – spontaneamente e ufficialmente – la necessità di condannare l’atto intimidatorio anonimo (proiettile e scritto minatorio) di cui è stato vittima un deputato e presidente di un partito, in questo caso il Centro, e di esprimere solidarietà nei confronti della persona Fiorenzo Dadò. Qualche parlamentare lo ha fatto, via social. Le eccezioni, lodevoli, non sono mancate. Ieri però, quando si è appreso del grave episodio, ci saremmo aspettati una reazione corale e tempestiva. A prescindere dagli steccati ideologici, al di là delle divisioni politiche.
Ci sono fatti che vanno stigmatizzati senza se e senza ma (e senza essere sollecitati dai media). Per scongiurare derive pericolose in un periodo istituzionalmente già piuttosto difficile.