laR+ I dibattiti

Salvare capre, cavoli, lupi e soia

Non posso che concordare in toto con quanto scritto da Orazio Martinetti su laRegione dell’11 settembre scorso a proposito dello sconforto che vivono alpigiani e contadini delle nostre valli. Ma non sono i soli. Qualsiasi pianta o animale (uomo compreso) hanno un impatto ambientale e riducono la possibilità di sopravvivenza degli uni quando altri diventano troppi. Lo è anche l’umano in moltissime situazioni e ogni specie fa di tutto per sopravvivere e riprodursi. La diatriba ormai più che decennale sull’introduzione dei grandi predatori, che in realtà sono arrivati da soli siccome sono cambiate le condizioni di vita delle nostre valli, è ingessata su rapporti esacerbati e contrapposti fra chi le valli le vive per trarre cibo a beneficio della cittadinanza e chi pensa che si possa convivere con i grandi predatori senza problemi su un territorio come il nostro. La politica è perennemente in ritardo, latitante o propone soluzioni complicate talvolta assurde o paradossali. Si spendono inutilmente milioni di franchi per risalire al Dna del predatore e sapere se la bestia sia un lupo o un cane. Per l’alpigiano fa poca differenza sapere se il suo gregge è stato attaccato da lupi o no. Per quanto riguarda i risarcimenti questi dovrebbero includere le bestie sbranate ma pure quanto queste avrebbero reso, compresa la diminuzione di redditività del resto del gregge che, traumatizzato dall’evento, riduce o non produce più latte. Manca un dialogo onesto fra le parti ma ritengo che la protezione va data prioritariamente a un settore che ci fornisce alimenti e non a dei predatori che trovano più facile sbranare un gregge che rincorrere migliaia di cervi selvatici. Cervi che stanno devastando anche le colture di pianura compromettendo la produzione non solo di formaggi e carne di qualità superiore a quella degli allevamenti intensivi e ambientalmente devastanti, ma anche di verdure, polenta, soia e frutta.

Esiste la possibilità che carnivori, vegetariani e vegani possano collaborare per trovare una soluzione che permetta a tutti di poter mangiare: chi pregiata selvaggina, chi il raccolto di campi preservati. L’anno scorso ho perso 2/3 della soia bio fatta coltivare sul Piano di Magadino siccome nel campo pascolavano allegramente 27 cervi sui circa 200 che ci vivono tutto l’anno. Cervi che non si vogliono contenere mentre è proibito recintare le coltivazioni messe già in croce da cambiamenti climatici con stagioni sballate ed eventi estremi sempre più frequenti. Come la grandine che quest’anno ha compromesso più della metà del raccolto di soia e distrutto tante altre coltivazioni. Se non avessi trovato una soluzione per la soia bio locale, a partire da quest’anno avrei dovuto licenziare 6 persone su 8; questo vorrebbe dire in pratica chiudere l’azienda. Tanti sono i produttori in difficoltà. Se vogliamo la sovranità alimentare, l’autosufficienza, alimenti di qualità a basso impatto ambientale, anche questa è biodiversità da salvare. Se no giriamo la testa dall’altra parte e prendiamo soia e carne brasiliana a scapito della foresta amazzonica.