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Riflessioni dopo il no all’ampliamento delle strade nazionali

(ti-press)

Lo scorso 24 novembre il popolo ha respinto la proposta di ampliare la rete autostradale. Questo risultato rompe una tradizione che di regola vedeva sonoramente respinte le iniziative per ridimensionare la costruzione delle infrastrutture stradali. È stato il caso per quattro proposte tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta del secolo scorso. Stessa sorte è toccata ad altre tre proposte per regolamentare la circolazione in modo restrittivo portate avanti agli inizi degli anni Duemila.

Qualcosa sembra ora cambiato. Mi sembra che emergano tre aspetti di rilievo. Innanzitutto il voto favorevole ha raccolto molti consensi non solo nel campo delle associazioni e dei partiti che hanno sostenuto il referendum, ma anche in quelli che raccolgono la maggioranza politica nel Paese e nel Parlamento. In secondo luogo molti automobilisti hanno contribuito al successo del voto referendario, ciò che non era scontato visto l’elevatissima diffusione di autovetture in circolazione in rapporto agli abitanti. Infine il voto contrario è largamente diffuso in tutto il Paese e solo tre dei sette Cantoni direttamente toccati dalle nuove opere hanno sostenuto la proposta. Più che i benefici prospettati hanno dunque fatto breccia i timori per gli impatti negativi.

Tutto ciò riflette un cambiamento di sensibilità. La mobilità è stata per lungo tempo assimilata a benessere e libertà. Dal secondo dopoguerra è cresciuta più velocemente della popolazione. Con l’inizio del secondo millennio questo binomio si è tuttavia incrinato. Da un lato sono infatti emersi gli effetti indesiderati sul paesaggio, sull’ambiente e sul clima, accresciuti dal nostro territorio, diventato sempre più piccolo. Ciò ha moltiplicato le opposizioni, comportato sempre più costruzioni in sotterraneo, allungato i tempi realizzativi e fatto esplodere i costi. D’altro lato la rapidità e la flessibilità d’uso associate al veicolo individuale sono state ridimensionate dalle congestioni, soprattutto nelle ore di punta. Le nuove infrastrutture nel frattempo realizzate hanno portato sollievo ma in realtà hanno spostato il problema altrove o lo hanno differito di qualche anno.

Anche le infrastrutture ferroviarie sono state contestate con i referendum lanciati nel 1987 contro il progetto “Ferrovia 2000” e, nel 1992, contro le “Nuove trasversali ferroviarie alpine”. Le future proposte potrebbero essere di nuovo contestate e dover affrontare un esito incerto.

È giunto il momento di interrogarsi sul significato del termine “complementarità”. Nell’ultimo ventennio è stato inteso come lo sviluppo di infrastrutture stradali e ferroviarie da sistematicamente ampliare in parallelo seguendo il motto “di tutto ovunque”. Credo che questo termine vada ora declinato in modo diverso. Occorre una visione “intermodale” a lungo termine in cui i diversi mezzi di trasporto sono promossi selettivamente e con stringenti priorità in funzione delle loro caratteristiche e delle loro potenzialità. Per giustificare i futuri investimenti, necessari per disporre di una adeguata rete di infrastrutture e di servizi, è necessario convincere dell’efficacia e della coerenza del tutto.

Questo presuppone un più stretto coordinamento tra i programmi di investimento per le infrastrutture stradali, ferroviarie e quelle degli agglomerati. Oggi prevale invece una corsa tra gli Uffici federali competenti per le strade, per i trasporti e per lo sviluppo territoriale a spendere tutto quanto i rispettivi fondi (Fif, Fostra e Programmi di agglomerato), alimentati da risorse vincolate, mettono a disposizione. Un programma globale e un fondo di finanziamento unico ci potrebbe preservare da altre sorprese.