L’imputata, ricostruendo i fatti, conferma che avrebbe dovuto essere aiutata da qualcuno - mai rintracciato - che si sarebbe dovuto servire di un ordigno
L’accoltellamento alla Manor di Lugano del 24 novembre 2020 sarebbe dovuto essere accompagnato da un attentato terroristico con bomba. Questo, almeno, secondo l’imputata a processo alla Corte d’Appello del Tribunale penale federale di Bellinzona. Un processo iniziato con un colpo di scena, ossia con il pentimento e le scuse nei confronti delle vittime espressi per la prima volta a oltre due anni e mezzo dai fatti dalla 30enne di Vezia.
Successivamente, l’interrogatorio del presidente della Corte Maurizio Albisetti Bernasconi è proseguito arrivando a ripercorrere brevemente i fatti, già ampiamente discussi durante il procedimento di primo grado sfociato in una condanna a nove anni per ripetuto tentato assassinio, violazione della Legge federale che vieta i gruppi al-Qaida e Isis, nonché le organizzazioni associate, e ripetuto esercizio illecito della prostituzione. L’imputata ha sostanzialmente confermato quanto già detto l’anno scorso, ossia di aver agito per dimostrare al proprio (presunto) compagno virtuale, che sarebbe stato un (presunto) terrorista – e per stare accanto al quale, e combattere anche al suo fianco, aveva tentato invano di raggiungere la Siria nel 2017 –, che anche lei era in grado di compiere un attentato.
L’imputata ha pure aggiunto qualche dettaglio su quello che nella sua ricostruzione sarebbe dovuto essere un piano più ampio. Stando alle sue parole, ci sarebbe dovuto essere anche un ulteriore attentato con tanto di bomba, ma chi avrebbe dovuto attuarlo all’ultimo non si sarebbe presentato in piazza Dante. Tuttavia, già durante il primo grado, non erano emersi alcun tipo di prova né di contatti che potessero confermare questa tesi. «Riteniamo molto positivo il suo pentimento – ha detto la procuratrice federale Elisabetta Tizzoni –, ma pur rinnegando i suoi ‘fratelli’ (la 30enne ha dichiarato di aver avuto circa 3’000 contatti di terroristi o presunti tali su ‘Facebook’, poi cancellati e mai rintracciati, ndr), si rifiuta di fornire i nomi. E si rifiuta di fornire i nomi anche di chi avrebbe dovuto effettuare il presunto attentato con la bomba». Permangono forti dubbi sull’autenticità delle dichiarazioni della donna, alla luce delle gravi turbe psichiche che l’affliggono e che hanno portato la Corte di primo grado a optare per una misura stazionaria in struttura chiusa in sostituzione della pena.
Prima di passare alla requisitoria della procuratrice federale, in chiusura di interrogatorio l’imputata ha ribadito il proprio pentimento, maturato negli ultimi mesi, sottolineando che «mi dispiace che la vittima (principale, costituitasi accusatrice privata, ndr) non sia presente perché avrei voluto dirglielo in faccia».