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Le famose tre strisce e le lacrime dei tedeschi

Ha suscitato stupore, tristezza e rabbia in Germania l'annunciata separazione tra la Federazione di calcio e l'Adidas suo storico fornitore

26 marzo 2024
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Pareva una semplice comunicazione di carattere commerciale – di quelle che non dovrebbero colpire più di tanto l’opinione pubblica – e invece la notizia che la Mannschaft, a partire dal 2027, non sarà più equipaggiata dall’Adidas è stata accolta dai tedeschi come una specie di lutto nazionale, difficile da accettare e ancor più da elaborare.

In effetti, immaginare le maglie della Germania senza le iconiche tre strisce è qualcosa che fa strano anche a chi con la selezione teutonica non ha particolari legami. Da sempre infatti – o almeno da quando i brand hanno cominciato ad apparire sulle divise di gioco – il connubio fra l’azienda dei fratelli Adolf e Rudolf Dassler (Gebrüder Dassler Schuhfabrik) e le bianche divise tedesche pareva indissolubile.

Fondata esattamente cent’anni fa a Herzogenaurach (Baviera), la ditta guadagnò la ribalta internazionale nel 1936, quando in occasione delle Olimpiadi di Berlino ebbe la fortuna – o il colpo di genio – di equipaggiare lo statunitense Jesse Owens, che di quei Giochi hitleriani fu l’indiscusso mattatore, capace di conquistare ben quattro medaglie d’oro nell’atletica leggera.

A quei tempi, però, il marchio ancora non appariva sugli articoli che l’azienda produceva, anche perché nessuno aveva pensato che un logo accattivante avrebbe potuto rivelarsi ancor più importante e redditizio della qualità del prodotto stesso. Le famose tre strisce – comprate per pochi soldi e un paio di pregiate bottiglie di whiskey al proprietario di un’azienda finlandese che già le utilizzava – apparvero soltanto nel 1952, quando in seguito a dissapori i due fratelli avevano già deciso di separarsi. Adi mantenne la ditta già esistente e la ribattezzò appunto Adidas, mentre Rudi coi soldi della liquidazione fondò la Puma, che in seguito fu a lungo la sua più accanita concorrente.

E fu proprio in quegli anni che Adi ebbe l’intuizione che fece della sua fabbrica un autentico simbolo nazionale: riuscì infatti a legare i suoi prodotti – le scarpe da gioco innanzitutto – alla Nazionale tedesca di calcio. La Germania, i cui criminali deliri nazisti avevano di recente sconvolto il mondo intero, nei primi anni Cinquanta tentava (con scarso successo, per la verità) di riconquistare credibilità e un posto fra le nazioni civili. Dopo la Seconda guerra mondiale a lungo esclusa dalle grandi manifestazioni sportive come Olimpiadi e Mondiali di calcio, fu riammessa al tavolo da gioco soltanto nel 1954, in occasione della Coppa del mondo di pallone disputata in Svizzera. Il caso – o il doping, secondo alcuni – volle che a vincere quel torneo, battendo in finale l’Ungheria delle meraviglie, fu proprio la Mannschaft, i cui giocatori sfoggiavano scarpe bullonate griffate appunto Adidas.

Quello passato alla storia come il ‘Miracolo di Berna’ aiutò parecchio a sdoganare la Nuova Germania agli occhi della comunità internazionale, e a quelle tre strisce i cittadini tedeschi finirono per affezionarsi all’inverosimile, trasformandole come detto in un emblema patrio dal quale la Nazionale non avrebbe mai più dovuto separarsi.

E invece, dopo una settantina d’anni, è giunta la ferale notizia: la Federazione tedesca di calcio ha deciso di divorziare dal suo fornitore di fiducia e di infilarsi nel letto della Nike, pronta a sborsare 700 milioni di euro dal 2027 al 2034 (il doppio di quanto messo sul piatto da Adidas) per poter mostrare il suo baffo sulle divise dei pronipoti di Fritz Walter, Franz Beckenbauer e Kalle Rummenigge.

Robert Habeck, vicecancelliere e ministro dell’economia, ha reagito in modo lapidario: ‘Con questa operazione – ha detto – perdiamo una parte dell’identità nazionale, e avrei preferito un po’ più di patriottismo’. Dello stesso tenore le parole del ministro della sanità Lauterbach: ‘Un errore gravissimo’. E soltanto un po’ più conciliante si è mostrato il cancelliere Olaf Scholz: ‘La Federazione di calcio non mi ha nemmeno consultato prima di decidere, ma l’importante è che i nostri giocatori continuino a segnare gol’. I tradimenti, insomma, sono davvero difficili da perdonare.