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La Spagna è tornata grazie ai Paesi Baschi

Il ct De la Fuente, nove giocatori e i due gol decisivi della finale arrivano tutti da Bilbao e dintorni. Una lunga storia d’amore, odio e calcio

Il ct De la Fuente portato in trionfo dai suoi
(Keystone)

Quattordici anni fa, l’11 luglio del 2010, la Spagna vinceva la Coppa del Mondo con in campo sette catalani. Di questi, cinque giocavano nel Barcellona (Xavi, Iniesta, Busquets, Puyol e Piqué) e un altro (Fàbregas) ci era cresciuto dentro (il settimo era Capdevila, scuola Espanyol). A volerla dire tutta ce n’era un ottavo, Pedro, da Tenerife, ma anche lui di scuola Barcellona.

Era l’alba del guardiolismo, che nel 2009 aveva sbancato la Champions League con questa novità da mal di testa che sembrava arrivare da un altro pianeta: il Tiqui-Taca. Il ct dell’epoca, il madridista Del Bosque, uno pratico – che se la filosofia di un altro lo portava alla vittoria, diventava la sua filosofia – prese in blocco il Barcellona e il suo gioco accompagnando la Spagna verso il suo primo (e finora unico) titolo mondiale.

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La Spagna alla catalana del 2010, campione del mondo


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La Spagna alla catalana del 2010, campione del mondo

In quell’occasione i convocati baschi furono tre, e uno solo, Xabi Alonso, scese in campo nella finale contro l’Olanda. A parte Jesús Navas, all’epoca 25enne, che entrò, al posto di Pedro, gli eroi dell’Europeo vinto domenica sera a Berlino erano tutti bambini o poco più: l’autore del gol decisivo contro l’Inghilterra, il basco Mikel Oyarzabal, aveva 13 anni, l’altro goleador di serata, il basco Nico Williams, ne aveva sette; Lamine Yamal ne avrebbe compiuti tre solo due giorni dopo. L’attuale ct spagnolo Luis de la Fuente, basco pure lui e vecchia bandiera dell’Athletic Bilbao, fino a quel momento aveva allenato solo nelle serie inferiori o nei settori giovanili.

Gli anni di ‘Patria’

Nel 2010 era sulla panchina del Bilbao Athletic, seconda squadra dell’Athletic Club (questo sarebbe il vero nome, senza Bilbao, che aggiungiamo noi stranieri). C’era ancora l’Eta, l’organizzazione indipendentista armata che avrebbe deciso di deporre le armi solo un anno più tardi, nell’autunno del 2011. L’annuncio del cessate il fuoco permanente arrivò su un video sgranato con dentro tre incappucciati che fece il giro del mondo. Nel frattempo c’erano stati quasi mille morti e decenni di nefandezze e incomprensioni.

Era un’altra Spagna, quella che poi ha messo nero su bianco – scrivendo un capolavoro – Fernando Aramburu, dando alle stampe “Patria”. Un romanzo che nel tentativo di raccontare quei posti e quegli anni, ci racconta la vita e i rapporti con l’altro di ognuno di noi meglio di come ce li raccontiamo noi, anche se non c’entriamo niente con l’Eta e con la Spagna.

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De la Fuente, con i baffi, nell’Athletic del 1984

I Paesi Baschi sono e significano tante cose per la Spagna, pur sapendo che non lo sarà mai del tutto: una di queste cose è il calcio, che in quella zona – per via dei porti, Bilbao in particolare – fu diffuso dai marinai inglesi alla fine dell’Ottocento. Non è un caso che la prima competizione ufficiale spagnola, la Coppa del Re del 1903, la vinse l’Athletic Bilbao, e anche la seconda. Quando nel 1937 la competizione fu interrotta per la guerra civile, l’Athletic aveva già in bacheca 13 coppe (il Barcellona 8, il Real Madrid 7) e anche 4 titoli dell’ancora giovane campionato nazionale (la prima edizione fu giocata solo nel 1929, il Real fin lì l’aveva vinto due volte, il Barcellona una sola).

Quella regola tutta loro

Già all’epoca, l’Athletic aveva una regola interna che porta avanti ancora oggi (anche se un po’ allentata): la sua maglia la potevano indossare solo baschi. E quindi niente stranieri, niente spagnoli di altra origine. Ora, per resistere al calcio moderno senza snaturarsi troppo si include anche chi ha origini basche o è cresciuto nel settore giovanile di una squadra della zona. Pur con questa limitazione, la squadra è una delle tre spagnole a non essere mai retrocessa (insieme, nemmeno a dirlo, a Barcellona e Real).

La sua gemella, della vicina San Sebastian (Donostia in basco), è la Real Sociedad: che dal 1989 include gli stranieri (il primo fu l’irlandese Aldridge), ma se può evita spagnoli non baschi. Quando nel 2002 arrivò l’asturiano Boris, erano 35 anni che uno spagnolo non basco non vestiva la maglia della Real Sociedad (ne arriveranno poi in tutto, altri 25 in 22 anni). Nelle ultime stagioni le due società sono tornate alla ribalta.

Nel 2020, l’anno del Covid, sono arrivate entrambe in finale di Coppa del Re. Decisero di comune accordo di non giocarla, di aspettare la fine della pandemia per una festa con i tifosi sugli spalti, evitando un asettico stadio chiuso. Questa cosa già segna una diversità con tutti gli altri, che le loro finali le hanno giocate. Nel 2023 la Real Sociedad ha chiuso il campionato al quarto posto, conquistando l’accesso alla Champions League.


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La Gabarra, la barca con cui l’Athletic festeggia i suoi successi

Quest’anno l’Athletic ha vinto la Coppa del Re dopo 40 anni, facendo rivivere ai propri tifosi l’emozione della Gabarra, ovvero la parata con la nave dal fondo piatto che trasporta la squadra e il trofeo lungo il Nervion, il fiume che attraversa la città, con dietro una flotta di barche di ogni tipo con sopra i tifosi, un po’ come mamma anatra con gli anatroccoli.

Nel 1984, sulla Gabarra, a festeggiare sia il campionato che la coppa, c’era Luis de la Fuente, difensore di quell’Athletic. Il 10 aprile scorso, c’erano Nico Williams, Unai Simon e Dani Vivian, tre dei nove baschi convocati da De la Fuente per l’Europeo in Germania. Mai così tanti a Europei o Mondiali. Di più furono solo, in un’altra epoca, alle Olimpiadi del 1920: ben quindici, tra cui il mitico Rafael Moreno Aranzadi, centravanti bilbaino detto El Pichichi, un soprannome che poi è diventato un appellativo e un premio per il capocannoniere del campionato spagnolo. La Spagna arrivò seconda dietro al Belgio. In Germania, oltre cent’anni dopo, tra i nove baschi che fecero l’impresa in quel di Berlino battendo l’Inghilterra ci sono i due baschi francesi naturalizzati Aymeric Laporte (ex Athletic, ora compagno di squadra di Cristiano Ronaldo all’Al-Nassr, in Arabia Saudita), Robin Le Normand della Real Sociedad e altri quattro della squadra di San Sebastian: Martin Zubimendi, Mikel Oyarzabal, Mikel Merino e Alex Remiro. Quest’ultimo, portiere come il bilbaino Unai Simon, è l’ennesimo prodotto di una scuola che ha lanciato quasi tutti i migliori portieri del calcio spagnolo, da Iribar a Zubizzareta, passando per Arconada.

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Il portiere Unai SImon, basco anche lui

Gli uomini della provvidenza

Il contingente basco, con 9 giocatori più il ct era il più numeroso, e se è vero che i titolari nella Spagna neocampione d’Europa erano “solo” quattro – Unai Simon, Nico Williams e la coppia di centrali formata da Le Normand e Laporte –, De la Fuente ha inserito gli altri nei momenti più importanti delle partite più complicate, venendo sempre ripagato: Mikel Merino è andato in gol nei supplementari contro i padroni di casa della Germania, Dani Vivian è entrato a puntellare la difesa nei minuti decisivi con la Francia, Oyarzabal ha risolto la finale entrando a metà del secondo tempo. In campo, da dopo l’intervallo, c’era già Zubimendi, che aveva la responsabilità di non far rimpiangere l’uomo più importante della squadra, poi eletto miglior giocatore del torneo, Rodri, che nel frattempo si era infortunato.

Durante il torneo, la Spagna si è appoggiata molto sul talento offensivo e precoce di Lamine Yamal, sull’esperienza e la capacità di fare le due fasi di Carvajal, sulle geometrie di Rodri, del compagno di reparto Fabian Ruiz e dello sfortunato Pedri (azzoppato da Kroos), sulla capacità di trovare la porta di Dani Olmo, sull’esperienza di Morata e anche sul presunto anello debole Cucurella, terzino capace – con quella sua chioma da cartone animato – di attrarre a sé gli snodi decisivi dell’Europeo: il suo tocco di mano in area contro i tedeschi nei quarti di finale, che poteva costare l’eliminazione, se sanzionato; e l’assist perfetto per Oyarzabal quando la partita con gli inglesi, nonostante il vantaggio iniziale, sembrava potesse andare ai supplementari, diventare maledetta e finire nelle mani di chi proprio non se lo meritava. Ecco, a sostenere il peso di tutto questo c’era un’architrave fatta da baschi, in campo e – soprattutto – in panchina, tra gente che quando entrava sapeva esattamente cosa fare e come e l’allenatore (l’unico ad aver vinto gli Europei con l’Under 19, l’Under 21 e la Nazionale maggiore).

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Il gol di Mikel Merino, basco, alla Germania

Xabi Alonso e gli altri

Non una rarità di questi tempi, visto che tra i migliori allenatori d’Europa spuntano baschi da tutte le parti: il più noto è Xabi Alonso (proprio lui, l’unico basco in campo nella finale Mondiale 2010 dominata dai catalani), che ha appena vinto il campionato tedesco da imbattuto con il Bayer Leverkusen. Ma baschi sono anche Mikel Arteta dell’Arsenal (ex vice di Guardiola al City, arrivato a un passo dal soffiargli il titolo), Unai Emery (vincitore di 4 Europa League e capace di riportare l’Aston Villa in Champions dopo 41 anni), Julen Lopetegui (1 Europa League, ora al West Ham), José Luis Mendilibar (vincitore un anno fa dell’Europa League con il Siviglia e capace quest’anno di portare per la prima volta una coppa europea in Grecia, la Conference League, alla guida dell’Olympiakos). Baschi sono anche Imanol Alaguacil della Real Sociedad ed Ernesto Valverde dell’Athletic.


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Xabi Alonso, orgoglio basco

Davvero troppi per essere un caso, con De la Fuente a fare ormai da uomo-guida, colui che ha sconfitto non solo l’Inghilterra, ma anche l’ossessione della Nazionale spagnola per il Tiqui-Taca, un gioco che le ha fatto vincere molto, moltissimo, ma da un certo punto in poi l’ha anche fatta perdere altrettanto. Ci volevano i Paesi Baschi per risorgere, chi l’avrebbe mai detto.


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Nico Williams e Mikel Oyarzabal, autori dei due gol spagnoli in finale

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