Le alluvioni che hanno investito quest’estate prima la Mesolcina e poi la Vallemaggia (Bavona e Lavizzara) hanno riproposto la questione del grado di resilienza delle zone di montagna. Abbandonarle al loro destino, come qualcuno propone ritenendo il loro costo troppo oneroso per l’erario pubblico, oppure trovare il modo di ripopolarle, garantendo ai valligiani sostegno e sovvenzioni? Domande destinate a rimanere sulle scrivanie dei politici, accanto all’altro grattacapo, quello relativo alla presenza del lupo. Da un lato quindi le disgrazie naturali (non nuove nel vasto bacino imbrifero della Maggia) e dall’altro la scelta di conferire lo statuto di specie protetta a grandi predatori da tempo scomparsi. Una decisione assunta da tutti i Paesi limitrofi, ma le cui conseguenze si stanno rivelando funeste per la naturale propensione di lupi, orsi e linci a riprodursi e sconfinare. E a non adeguarsi ai principi della ‘buona educazione’, come i loro patrocinatori vorrebbero, umanizzandoli. Bestia scaltra, come si è più volte osservato, il lupo non si accontenta di azzannare un singolo capo (di solito pecore e capre), ma tende ad accanirsi su più esemplari, ferendoli e lasciandoli sul terreno ad agonizzare.
Ciò costatato, occorre allargare lo sguardo del fenomeno, giacché coinvolge altri ambiti, almeno quattro:
L’aspetto economico. Già negli ultimi anni il lupo ha contribuito ad accelerare la desertificazione dei pascoli alti, costringendo alcune aziende a chiudere o a cercare vie alternative. Forse chi abita in città (il cittadino) non si rende conto dei sacrifici di chi abita nelle valli (il montanaro); non conosce quanto tempo e lavoro esige l’allevamento di bestiame grosso e minuto, la manutenzione di strade sterrate e sentieri, le opere di selvicoltura, terrazzamento e arginatura, il recupero di edifici rurali diroccati ecc.. Il gitante domenicale ammira il grandioso spettacolo della natura ma raramente getta l’occhio sull’aspra quotidianità dei montanari, uomini e donne che restano a presidiare i luoghi anche quando l’ultima comitiva fa ritorno in città. Ama acquistare formaggi a chilometro zero, ma non sa chi li produce, con quali fatiche e in quali condizioni.
L’aspetto sociale. Abbandonare il settore primario, in particolare l’allevamento, vuol dire svuotare i centri di aggregazione, vanificare le iniziative, portare alla chiusura di scuole, uffici postali, condotte mediche, negozi, osterie, campi sportivi e ricreativi. All’esodo delle giovani forze, attratte dal piano, fa da contraltare l’invecchiamento senza speranza di ricambio della popolazione residente. E si sa che senza l’apporto della risorsa umana ogni progetto di rilancio è destinato a fallire. Lo sfibramento demografico rende ardua anche l’amministrazione dei comuni e dei patriziati.
L’aspetto politico. Il ceto rurale un tempo poteva contare sull’appoggio del Partito agrario, fondato in Ticino nel 1920 al fine di "promuovere il benessere morale e materiale delle campagne in generale e della classe agricola in particolare". Ora i suoi eredi – l’Udc e la Lega – guardano altrove. Non paiono interessati a farsi interpreti dei bisogni e delle ansie dei contadini di montagna. Evidentemente contano di più i voti degli animalisti. Le recenti manifestazioni di protesta (prima a Bellinzona di fronte al Palazzo delle Orsoline e poi in valle) testimoniano l’esistenza di un senso di impotenza che in altri tempi avrebbe trovato interlocutori e ascolto.
L’aspetto morale. Confederazione e Cantoni hanno pensato di ridurre il danno (la perdita di guadagno da parte degli allevatori) attraverso lo strumento dell’indennizzo (oltre tre milioni di franchi versati dal 1999 al 2022). Soluzione moralmente discutibile, perché legittima un atto di violenza su animali inermi e incapaci di difendersi, allevati con passione e dedizione. La decisione di non corrispondere risarcimenti ai proprietari colpevoli di non proteggere adeguatamente le greggi non convince: giusto il proposito di incentivare un maggiore impegno nelle attività di custodia e prevenzione, ma alla fine si arriva alla stabulazione forzata e ai recinti elettrificati. Il risultato è la mortificazione di capre e pecore, erbivori abituati a vivere sulle creste, gioiosamente liberi tra terra e cielo, e non già in corti simili a colonie penali.
In Trentino le autorità sconsigliano di inoltrarsi in territori in cui è stata segnalata la presenza dell’orso. Da noi il plantigrado non è ancora arrivato, ma potrebbe. Intanto dobbiamo fare i conti con il lupo, che è tra noi e intende rimanerci, difeso dal legislatore sebbene non sia un animale da reddito ma un predatore crudele. La fiaba esopica del lupo e dell’agnello, metafora del forte contro il debole, della prepotenza contro la mansuetudine, è diventata realtà, con all’orizzonte la progressiva sparizione dell’economia alpestre.
L’autore di questo articolo, figlio di contadini di montagna, è stato in gioventù pastore in val Piora.