Una volta, alle elementari, il maestro ci chiese di disegnargli il canton Ticino; un semplice schizzo a matita, tanto per capire quale idea balenasse nelle nostre rustiche menti. Il risultato deluse le attese del docente: geometrie bislacche, composizioni cubiste, pittogrammi informi e seghettati, allungati oppure tozzi. Frontiere incerte, soprattutto a sud, e nessun lago. Spiccavano però la ferrovia e il fiume, nonché la capitale, Bellinzona, evidenziata con un bel pallino rosso, più o meno al centro della figura. Venanzio, figlio di immigrati italiani, lo ritrasse a foggia di stivale… suscitando ilarità e ondate di sfottò. Da quel momento la carta geografica, non solo del Ticino ma dell’intera Svizzera, non fu più staccata dalla parete, monito e guida per le prossime esercitazioni.
Allora non immaginavamo quali risultati potesse dare la cartografia. Lo scoprimmo dopo, sui manuali di geografia fisica e umana. Proprio in quegli anni, una nuova generazione di geografi, architetti e urbanisti formatasi nelle università d’oltralpe iniziava a leggere il territorio attraverso lenti nuove, calibrate sulle trasformazioni indotte dal boom edilizio e dall’autostrada. Ne usciva una rappresentazione viepiù stilizzata e complessa, reticolare, che dagli assi principali (rappresentati da segmenti stretti o larghi a seconda dei volumi di traffico) si estendeva alle aree urbane e da qui all’anfiteatro alpino. Le mappe evidenziavano, accanto alla spina dorsale nord-sud e alle costolature secondarie, la minuta tessitura viaria che accompagnava la diffusione a macchia di leopardo degli abitati, soprattutto nella fascia collinare e prealpina. Come cogliere e categorizzare quella galoppante e tentacolare urbanizzazione? Le tradizionali distinzioni apparivano superate, anacronistiche. Era evidente che la crescita aveva scavalcato i confini tra la città e la campagna, per farsi liquida e pervasiva. Come afferrarla e rappresentarla, attraverso quale vocabolario? Fu allora che emerse il concetto di «città diffusa» inteso come «continuum» urbano imperniato sul triangolo Bellinzona-Locarno-Lugano (-Chiasso), poli tra loro interconnessi da una ferrovia di tipo metropolitano, con il Ceneri a mo’ di raccordo sotterraneo.
Nei discorsi ufficiali la città diffusa ha poi assunto il nome di «Città Ticino»: nozione descrittivamente efficace ma unilaterale, giacché lasciava fuori dal suo campo visivo l’altro Ticino, quello montano, fatto di gole e calanchi, versanti scoscesi, foreste, alpeggi (in parte già invasi dalla vegetazione), e punteggiato di cascinali e di insediamenti temporanei, un tempo adibiti a tappa intermedia della transumanza. In un suo recente saggio lo studioso padovano Mauro Vanotto ha definito questi spazi «montagne di mezzo», ossia realtà minori, scarsamente popolate, collocate a metà strada «tra vette celebrate e fondivalle congestionati».
Percorrendo l’autostrada lo sguardo inquadra i villaggi aggrappati ai fianchi delle vallate, nuclei malinconicamente silenti, tranne che nei fine settimana e durante la bella stagione. Pochi e perlopiù anziani gli abitanti stabili rimasti, segno di un declino demografico ormai irreversibile. Di qui la domanda, traducibile in scommessa: è possibile invertire la rotta, rianimare questi grappoli di edifici, molti dei quali cadenti, per recuperarli e inserirli in un rinnovato circolo produttivo e quindi slegarli dal destino di «residenze secondarie»?
La questione è ritornata attuale in quest’anno di pandemia. Si è parlato di fuga dalla città, di ritorno all’aria salubre delle campagne, di un contro-esodo verso la montagna dopo anni di irrefrenabile inurbamento; giovani famiglie che, obbligate al telelavoro, hanno pensato di abbandonare i loro mini-appartamenti cittadini per rituffarsi nella natura.
Il virus considerato insomma non come punizione divina, ma come opportunità da cogliere per sperimentare nuovi modi di vivere e di lavorare, e da ultimo come acceleratore di processi tecnologici già in atto, trainati dalla fibra ottica, ma non ancora implementati nelle aree più discoste.
Nei prossimi anni vedremo se tale tendenza troverà conferma. Se così sarà, se nelle «terre alte» confluirà nuova linfa, finanziaria ma principalmente umana, ovvero sangue fresco e iniziative imprenditoriali, diventerà realistico, e non più un’utopia, concepire un riequilibrio tra la montagna e la pianura, in un’ottica di utilizzo oculato delle risorse disponibili. Montanari e cittadini non più contrapposti, non più i primi subalterni ai secondi in un clima di reciproca diffidenza, ma finalmente alleati e disposti a collaborare nella progettazione di piani di rigenerazione.
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Il rapporto tra «terre basse e terre alte» sarà al centro della prossima iniziativa di Coscienza Svizzera. La discussione, fruibile in videoconferenza sulla piattaforma Zoom, sarà introdotta e moderata dalla giornalista Alice Pedrazzini e avrà come protagonisti lo storico Luigi Lorenzetti, coordinatore del Laboratorio di Storia delle Alpi, e l’economista Tarcisio Cima, redattore del mensile «Voce di Blenio». L’appuntamento è per lunedì 1° marzo 2021, alle 18. Tutte le informazioni sul sito www.coscienzasvizzera.ch