In attesa che il Gpc decida se togliere o meno i sigilli voluti dalla Polcantonale, a confronto opinioni critiche e giurisprudenza federale
Segreto sì, segreto no? Non smette di far discutere la decisione della Polizia cantonale di oscurare alcune parti degli incarti richiesti dal procuratore generale Andrea Pagani nell’ambito degli approfondimenti sulla parziale demolizione dell’ex Macello di Lugano avvenuta nel maggio del 2021. Una scelta sulla quale sta lavorando ora il Giudice dei provvedimenti coercitivi (Gpc) Ares Bernasconi, che dovrà decidere se togliere o meno i sigilli e quindi permettere al pg di attingere ai documenti integralmente per le proprie indagini. La mossa della Polcantonale ha suscitato reazioni diverse e interrogativi, anche politici, a cominciare da quelli inoltrati al Consiglio di Stato (Cds) da un gruppo di granconsiglieri socialisti guidati da Tessa Prati.
La vicenda è politica, dunque di opportunità, oltre che squisitamente giuridica. Per affrontarla sotto quest’ultimo aspetto ci siamo rivolti a diversi esperti, prevalentemente avvocati penalisti, senza trovare tuttavia qualcuno che volesse esporsi. A microfoni spenti, invece, le considerazioni non sono mancate. Chi invece dice la sua sul caso, esprimendo critiche e preoccupazioni, è l’Associazione giuristi democratici Ticino (Agdt). «Ritengo politicamente molto problematico quando la polizia agisce, con o senza l’avvallo del potere politico, nei confronti di un’autorità giudiziaria in questo modo – osserva da noi interpellato Martino Colombo, segretario generale dell’Agdt –. La legge permette l’apposizione dei sigilli in virtù della facoltà di non rispondere e di non deporre o per altri motivi, come il segreto professionale (l’allusione è all’articolo 248 del Codice di diritto processuale, ndr) e altrettanto punisce chi vìola il segreto d’ufficio (stavolta il riferimento è all’articolo 320 del Codice penale, ndr). Noi abbiamo delle perplessità che i motivi invocati dalla Polizia cantonale possano rientrare sotto questi cappelli».
Intanto, val la pena chiarire che il segreto al quale si fa riferimento sarebbe, secondo nostre informazioni, esclusivamente quello professionale, ossia d’ufficio. Non avrebbero nulla a che vedere presunti segreti di Stato, come mormorato nei giorni scorsi. Nello specifico, sempre da nostre informazioni, la Polcantonale avrebbe dapprima oscurato e successivamente richiesto i sigilli su quelle parti di documenti che avrebbero in qualche modo svelato informazioni strategiche, di carattere operativo. Ad esempio, il numero di agenti intervenuti durante lo sgombero e la demolizione del Centro sociale autogestito, luoghi e tattiche dell’operazione. Informazioni contenute, fra l’altro, nei verbali dello Stato Maggiore che prese le decisioni e che pianificò i vari scenari nei mesi antecedenti ai fatti. Documenti che sembrerebbero essere stati richiesti da Pagani dopo che, ricordiamo, lo scorso giugno la Corte dei reclami penali ha accolto il ricorso dell’Associazione Alba indicando al pg di riaprire le indagini che avevano in un primo momento portato a un decreto d’abbandono.
«Se confermata, mi sembra comunque una motivazione pretestuosa – osserva Colombo –. Credo che elementi operativi non possano giustificare questi sigilli. Diversi elementi erano emersi e già di base il pg durante la prima inchiesta aveva definito l’operazione come claudicante dal punto di vista della comunicazione, mi chiedo che operatività debba essere protetta. Il numero di agenti è una questione irrilevante... è noto che i dispositivi di sicurezza sono generalmente calcolati in base al numero di manifestanti e dal tipo di manifestazione. Peraltro, stiamo parlando di un dispositivo che, almeno questo era stato spiegato, era stato creato ad hoc e per cui erano stati coinvolti agenti di polizia romandi. Oggi, quando il Molino occupa, i contesti sono temporanei e completamente diversi e immagino che anche i dispositivi di polizia cambino di volta in volta».
Altri aspetti emersi dalle nostre ricerche. Intanto, sembrerebbe che la Polcantonale abbia deciso di oscurare queste informazioni ritenute sensibili non tanto per non renderle note al pg, quanto per non metterle a disposizione di terzi. Questo perché gli incarti raccolti dalla Procura durante le indagini sono a disposizione delle parti: avvocati di difesa e loro assistiti compresi. C’è poi l’aspetto della competenza. Non essendo la Polizia cantonale una persona giuridica a sé stante, fa evidentemente riferimento a un’autorità superiore che in questo caso è il Cds. A formulare la richiesta di sigillare i documenti sarebbe stato il comandante Matteo Cocchi e questo ha suscitato degli interrogativi sulla sua competenza. Tuttavia, sembrerebbe tutto in regola: il comandante ha la delega da parte del Cds per la gestione del Corpo, compresa l’amministrazione del segreto d’ufficio.
L’aspetto più interessante emerso in queste prime fasi di raccolta di osservazioni da parte del Gpc è tuttavia il motivo per il quale la Polcantonale ha deciso di non liberare tutto il contenuto dei documenti richiesti. Si tratterebbe infatti di informazioni ritenute di natura strategica, che potrebbero mettere a repentaglio o intralciare la polizia nell’esercizio della sua attività, ossia la garanzia della sicurezza pubblica. Informazioni dunque che non avrebbero rilevanza ai fini dell’inchiesta, in quanto non inciderebbero sulla posizione di nessuno. Il vicecomandante della Polcantonale Lorenzo Hutter, come la municipale di Lugano Karin Valenzano Rossi, ricordiamo, figurano formalmente come indagati a seguito della denuncia di Alba per le ipotesi di reato di abuso di autorità, violazioni delle regole dell’arte edilizia e infrazione alla legge sulla protezione dell’ambiente. La tutela, se caso, sarebbe del segreto d’ufficio nell’ambito di una procedura di acquisizione di prove documentali.
«Ma queste strategie operative – si chiede da parte sua Colombo – sono talmente granitiche che non possono essere modificate? La questione a nostro avviso è semplice: la polizia è subordinata all’esecutivo cantonale e con le autorità giudiziarie c’è una collaborazione quotidiana nella risoluzione dei reati. D’altra parte, dal punto di vista dei diritti fondamentali e della tenuta dello Stato, quel che ci poniamo come questione è che sotto accusa non è l’intero Corpo di polizia ma un suo membro e qui abbiamo la polizia che di fatto, poi vedremo se legittimamente o meno, sembra voler impedire l’accertamento della verità da parte della Procura. E questo potrebbe essere visto anche come difesa del proprio dipendente. Secondo la legge, però, la polizia ha tra gli altri il compito di indagare e di accertare i reati. Che immagine si dà ai cittadini? E se un privato è vittima di un reato o presunto tale commesso da un agente? Ricordiamo che in base alla costante giurisprudenza del Tribunale federale (Tf) e della Cedu (la Corte europea dei diritti dell’uomo, ndr), le autorità sono tenute a condurre delle indagini che siano effettive e approfondite. A causa di questa mossa, sorgono dei dubbi sull’indipendenza della polizia nella gestione e nell’analisi delle accuse rivolte ai propri membri».
Dirimere la questione spetterà come detto al Gpc, che in sostanza dovrà decidere se privilegiare la tutela del segreto invocata dalla Polcantonale oppure la necessità di mettere a disposizione del pg, e conseguentemente anche delle altre persone che hanno accesso agli atti, le informazioni segretate. In attesa della decisione, che dovrebbe essere presa entro un mesetto, a orientarci è la giurisprudenza del Tf. Parzialmente, in quanto casi come questo o quantomeno simili sembrano essere piuttosto rari. Tra questi, una sentenza del 2014 su fatti avvenuti nel canton Argovia, relativa all’autorizzazione di un agente a testimoniare in un grave incidente della circolazione. Un caso diverso, dal quale tuttavia emergono alcuni elementi che si possono ricondurre anche al caso luganese.
In primo luogo, si sottolinea più volte che effettivamente non esiste segreto d’ufficio tra polizia, Ministero pubblico e tribunali, che si occupano della stessa materia. Si legge, inoltre, che la polizia non potrebbe invocare il segreto professionale in particolare nei confronti della Procura e dei tribunali se la polizia ha compiuto degli atti procedurali nel contesto di un’indagine penale. E se la polizia denuncia un reato alle autorità di perseguimento penale, in linea di principio è tenuta a rendere loro accessibili tutti i documenti, nella misura in cui questi possono servire come mezzo di prova o sono collegati all’indagine penale.
Tuttavia, c’è un ma. Queste indicazioni si riferiscono al caso nel quale polizia e Procura lavorano assieme per chiarire fatti commessi da terzi, nei quali gli agenti hanno obbligo di denunciare. In questi casi, il segreto professionale non può sussistere. Il caso dell’ex Macello invece è sensibilmente diverso, in quanto la polizia stessa è parte in causa e quindi le indagini non sono su fatti sui quali la polizia ha l’obbligo di denunciare, ma vertono anche sull’agire stesso della polizia. Un’altra sentenza, sempre del Tf e relativa stavolta all’amministrazione della cosa pubblica, spiega che si può chiedere la messa sotto sigillo di documenti quando la divulgazione degli stessi intralcia in modo importante lo Stato nell’esercizio delle sue attività e nel caso concreto si tratterebbe della sicurezza pubblica. Per la cronaca, il Gpc di quel cantone aveva ritenuto che la richiesta fosse legittima ma che l’informazione che si voleva tutelare non fosse degna di protezione, togliendo il sigillo.
E il Gpc ticinese cosa deciderà? Non è detto che non si riesca a trovare un accordo, ci dicono a microfoni spenti i nostri interlocutori. Un compromesso dunque. Sarà sufficiente a far contente entrambe le parti e soprattutto a fare luce sulla controversa demolizione di due anni e mezzo fa? «Me lo auguro – conclude Colombo –. In questo caso non si sta parlando né di operazioni ancora in corso, né di argomenti delicati come la malavita o il terrorismo. Ci sono delle macerie e bisogna accertare come si è arrivati lì. E basta».