Efficacia e tanta creatività. Così lo spagnolo ha spazzato, dal Centre Court, Djokovic nella riedizione della finale dell’anno scorso di Wimbledon
Carlos Alcaraz ha 21 anni, ha vinto 4 Slam e gioca a tennis in modo favoloso. Così bene che quando lo vediamo disegnare il campo con la racchetta dobbiamo tirarci dei pizzicotti, per rassicurarci che sia tutto vero. Domenica è diventato il nono tennista della storia a riuscire a difendere il titolo a Wimbledon, e lo ha fatto giocando un tennis fantascientifico, una sintesi folgorante di efficacia e creatività. Ha spazzato via Novak Djokovic, che a Wimbledon ha vinto 7 volte ed era a caccia del suo venticinquesimo Slam. Eppure, dopo la partita, ha dichiarato: «Non mi sento ancora un campione» e anche «Per me Djokovic resta Superman», forse perché non ci si può considerare superiori di un campione che ha vinto il suo primo Slam quando si aveva 8 anni.
Il primo game del match è durato un quarto d’ora e sembrava preannunciare uno scontro interminabile e tirato. La partita, invece, è stata breve e dal risultato inequivocabile. Non per questo, però, non ci sono stati fatti notevoli. Invece di uno scontro epico tra due campioni, com’era stata la finale della scorsa edizione, la finale di Wimbledon è diventata l’esibizione più pregiata del talento di Carlos Alcaraz.
Ricorderemo il giorno in cui si è rivelato al mondo, battendo Stefanos Tsitsipas in cinque set agli Us Open del 2021; ricorderemo il giorno del suo primo Slam vinto, nello stesso torneo, un anno dopo. Ricorderemo il giorno in cui riuscì a battere Djokovic in finale a Wimbledon in cinque set durissimi, in una vittoria dalla portata epica - San Giorgio che uccide il drago? Ricorderemo anche questa partita, che ha marcato il passaggio del tempo, e forse la vera fine di un’era.
Non avevamo mai visto Djokovic così passivo; non lo avevamo mai visto arrendersi così alla sconfitta. Non aveva possibilità ed è sembrato capirlo presto. Dopo un’ora e un quarto erano già finiti due set e lui non mostrava alcuna reazione. In quelle situazioni, in genere, cerca di scuotersi. Cerca un dettaglio nella partita, o fuori da essa, magari il pubblico o il giudice di sedia, a cui può aggrapparsi per accendersi e tornare competitivo. Il suo tennis per funzionare ha bisogno della sua elettricità mentale, e questa si può azionare solo attraverso il conflitto, in opposizione a qualcuno o a qualcosa: il suo avversario, o magari il pubblico che sta tifando contro di lui. Se c’è una cosa che odia sono le partite tranquille. Quando sta vincendo nettamente, e capita spesso, cerca di turbare l’atmosfera. Il contesto diventa improvvisamente ruvido, la partita si sporca, e lui sembra sempre il più concentrato.
Domenica non c’è stato nessun momento di rottura, e Djokovic è sembrato per tutta la partita leggermente assente a sé stesso. È stato uno spettacolo a suo modo intenso: vedere un giocatore che conosciamo bene, che abbiamo imparato a conoscere in ogni sua sfumatura, smarrire la propria identità; diventare un altro: passivo, rassegnato, arreso. I game hanno cominciato a scorrere veloci, e in un tennis folgorante, rapido, spettacolare, anti-competitivo, Alcaraz può brillare più di tutti. Se non c’è lotta, se la partita diventa un’esibizione del proprio repertorio, e si può giocare a braccio sciolto, Carlitos non ha rivali.
Djokovic non è riuscito a metterlo in difficoltà in alcun modo. Per tutto il torneo ha cercato di accorciare gli scambi e le partite, probabilmente per tenere nascosti i problemi di mobilità. Si è operato al menisco poche settimane fa, e nessuno avrebbe immaginato di ritrovarlo in finale. La sua ennesima impresa. Contro Holger Rune e Lorenzo Musetti, tra ottavi e semifinale, ha giocato un tennis insolito non solo per lui ma per il tennis di oggi in generale, scendendo a rete appena possibile, chiudendo il campo in avanti. Ha messo in mostra una sensibilità di braccio che gli viene riconosciuta forse troppo poco. Un gioco di servizio e volée quasi vintage, sui prati di Wimbledon. Del resto Djokovic è un tennista camaleontico, una specie di Leonard Zelig, capace di impersonare ogni tennista possibile a seconda di cosa la partita e l’avversario richiedono. Djokovic infinitamente adattabile, supremamente elastico.
(Keystone)
Una lunga serie di colpi precisi per un bis d’autore
Alcaraz però è riuscito quasi subito a disinnescare queste armi. Nelle prime otto discese a rete Djokovic ha fatto appena due punti. Le altre armi migliori del suo gioco tardo, ovvero di questa parte finale di carriera, servizio e risposta, sono state inefficaci per tutto il match. Senza poter controllare gli scambi dall’inizio, il gioco di Djokovic si è incartato, e i vincenti di Alcaraz sono cominciati a piovere da tutte le parti. Sono stati 42 a fine match, con poco più di 20 errori non forzati: un saldo irreale. Il campo sembrava più grande per Alcaraz, la rete più bassa, le righe più spesse e dotate di uno speciale potere magnetico.
Nel terzo set il rendimento di Djokovic è leggermente salito; è quantomeno arrivato a un livello accettabile.
Alcaraz, che non è certo noto per la costanza nelle sue partite, e che concede spesso generose flessioni, stavolta non è arretrato di un millimetro. Il suo livello di gioco si è alzato per continuare a dominare quello del suo avversario. I colpi di Djokovic hanno cominciato ad angolarsi e ad allungarsi, a correre più veloci; allora Alcaraz rispondeva nel solo modo che sa fare: accelerando ancora, anticipando di più i colpi, esasperando profondità e angolazioni. Un 6-4 nel terzo set sarebbe stato un risultato più fedele della differenza che si è vista nella partita, tra i due giocatori, ma Alcaraz ha sciupato incredibilmente tre matchpoint. Un pasticcio improvviso, che è diventa un’occasione per mostrarci ulteriore grande tennis.
Ai microfoni, nella conferenza post-partita, Djokovic ha riconosciuto la superiorità del suo avversario: «Ha giocato meglio di me ogni singolo colpo»; poi ha certificato una situazione inedita: «Sento che oggi le sfide con i migliori giocatori al mondo, Sinner e Alcaraz, ecco, sento di non essere al loro livello». Era quello che abbiamo pensato in questa partita, e anche negli ultimi mesi, in cui la sensazione di dominio di Djokovic si è incrinata. Non si tratta solo di risultati ma della sensazione, più intangibile, che non c’è più, quella che un Djokovic davvero in forma non abbia rivali – indipendentemente dai problemi fisici – dal tempo che passa. È sempre sembrato a suo modo invulnerabile.
A Londra un anno fa la vera abdicazione
Col senno di poi, quella finale di Wimbledon dello scorso anno, che Alcaraz ha vinto grazie a pochi dettagli, è stata una vera abdicazione. «Di fronte alle avversità di solito cresco, imparo e divento più forte» ha detto domenica Djokovic, ed è quello che fece dopo quella finale, riuscendo a prendersi la rivincita con Alcaraz al torneo di Cincinnati, in un’altra partita memorabile. Dopo però sono arrivate altre sconfitte. Contro Sinner in Coppa Davis, addirittura col matchpoint a favore, e poi di nuovo contro Sinner a Melbourne. E poi la sconfitta con Alcaraz al Roland Garros. I giovani sono cresciuti, Djokovic ha sempre più acciacchi, e non ha più il livello fisico e l’intensità mentale per reggere il ritmo di questi giocatori. Il nuovo prende sempre il posto del vecchio.
È stata una presa di consapevolezza che Djokovic è sembrato accettare serenamente, mentre per noi spettatori è stata un po’ più dura. I campioni con cui siamo cresciuti, che abbiamo seguito per anni, che si avviano verso il tramonto sono un segno evidente del tempo che passa, delle cose che finiscono. C’è stato un tempo in cui l’imbattibilità di Djokovic sembrava poter durare in eterno, in cui tutte le nuove generazioni di giocatori che arrivavano dovevano scontrarsi con questo monolite di competitività. Oggi ci troviamo a commentare uno stato di cose molto diverso. Al termine di una carriera oltremodo vincente, in cui ha massimizzato i frutti del suo talento, cosa resta da conquistare a Novak Djokovic, dove trovare le famose motivazioni?
Ci sono ancora i Giochi Olimpici di Parigi, un obiettivo tanto agognato da Nole. Poi forse un’altra stagione da vivere nel 2025, dove dovrebbe concedersi le ultime possibilità per raggiungere il suo venticinquesimo Slam ed eguagliare Margaret Court. Una delle ultime ossessioni a essergli rimasta, mentre l’idea di un Calendar Slam – cioè di vincere tutti e quattro i tornei dello Slam in una singola stagione – sembra ormai sbiadita.
Alcaraz ha mostrato un livello di gioco terrificante: un monito spaventoso per i suoi avversari, che iniziano a scarseggiare. Jannik Sinner, il numero uno del mondo, ha avuto un rendimento incredibile tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, «è stato il più regolare, il più costante» ha ammesso Alcaraz. In questo Wimbledon ha pagato però una condizione fisica non ottimale, che a dire il vero sembra un suo difetto strutturale. Deve essere la prima cosa da migliorare per poterci regalare altre sfide epiche con Carlitos. E chi c’è oltre Sinner e Alcaraz? Oggi è difficile da dire. Rune sembra essersi perso, Musetti ha giocato un grande Wimbledon ma ha limiti troppo grandi per quel livello. Medvedev sarà un osso duro sul cemento, ma fuori da lì non sembra rappresentare un grande problema, soprattutto per Alcaraz. Forse bisogna allora cercare tra i giovanissimi che oggi offrono qualche segno di predestinazione: il brasiliano Joao Fonseca, per esempio, con caratteristiche molto simili a quelle di Sinner; il ceco Jakub Mensik, che gioca con violenza mai vista; oppure il 2006 austriaco Joel Schwärzler, che gioca nei Challenger ma il cui nome circola nelle chat tennistiche più esoteriche.
Per loro la strada sembra ancora lunga. Di certo da domenica il panorama del tennis sembra molto diverso da quello in cui siamo cresciuti.
Keystone
La fine di un’era?