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Djokovic più forte di tutti e di tutto

Il serbo ha conquistato l’Open australiano mostrando, oltre a una netta superiorità tecnica, pure una forza mentale impressionante

31 gennaio 2023
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La prima reazione è stata stranamente composta. Novak Djokovic chiama il clamore del pubblico mentre guarda il cielo, gli parla mentre si batte la mano sul cuore. Poi si inchina e batte la mano sul suolo di Melbourne, fa una strana smorfia con la bocca, poi si porta l’indice alla tempia, poi al cuore, infine alle parti basse. Indica le tre cose che nella sua filosofia gli sono servite per vincere il decimo Australian Open in carriera, il suo ventiduesimo Slam, uno dei più ricercati, ambiti, voluti. La finale contro Tsitsipas ridotta a una pura formalità. Djokovic poi si disfa della pallina rimastagli in tasca, un gesto quotidiano in mezzo a una tempesta emotiva.

È nella seconda reazione che tutta questa studiata compostezza va in pezzi. Djokovic si avvicina al suo angolo e gli agita il pugno. Poi sale sulla balaustra ed esulta insieme a loro.

Mai visto Nole così

È una scena che fa ancora parte della grammatica delle esultanze nel tennis. Ci sono invasioni degli spalti più o meno celebri, come quella di Rafa Nadal sporco di fango, stremato, che sale coi piedi sui seggiolini del sacro Centrale di Wimbledon per salutare il re di Spagna. Poi Djokovic scende tra loro, tra la sua famiglia e il suo staff. Tutti lo sommergono in un abbraccio, da cui poi lui si libera per gridare ancora verso il campo da tennis.

A quel punto Djokovic sembra poter tornare in una veste più formale. Ritornare verso la premiazione, i discorsi cerimoniosi, la felicità contenuta. Invece torna indietro, abbraccia la madre Dijana, il fratello Djordje, e qualcosa in lui si rompe. L’emozione diventa torrenziale, Djokovic si accascia a terra sopraffatto. Non lo vediamo quasi più, se non per gli occhi stretti nelle lacrime, addolorati. I corpi delle persone care lo circondano e lo proteggono mentre lui è fragile e stremato. Sembra il compianto del Cristo morto di Botticelli. Non avevamo mai visto Djokovic così emotivamente a pezzi, oppure sì?

L’esempio di Borg

Alla finale degli US Open del 2021 Djokovic si era presentato in uno stato pietoso. Tremante, spaventato anche dalla sua ombra. Arrivava a quella partita con la possibilità di completare il Calendar Slam – ovvero la vittoria di tutti e quattro gli Slam in una stagione – ed era circondato da una pressione irreale. A nessuno dei Big-3 era mai riuscito. Djokovic è noto per la sua capacità di assorbire la pressione e trasformarla in energia positiva, ma quella volta forse era stato troppo. Si era presentato alla finale contro Medvedev ormai a pezzi, e la partita gli era servita solo a provocarsi una mezza crisi di pianto per espellere lo stress.

Lennart Bergelin, leggendario coach di Bjorn Borg, aveva usato un’immagine efficace per spiegare a Borg come si diventa un campione di tennis. Il giovane Bjorn era noto per le sue intemperanze, per l’incapacità di scendere a compromessi con la frustrazione intrinseca a questo sport; allora Bergelin gli aveva detto: «Le emozioni devi tenertele tutte dentro. Devi diventare una pentola a pressione». Quella volta agli US Open per Djokovic il coperchio era sbalzato prima, stavolta invece ha retto fino a quella scena di pianto sugli spalti della Rod Laver Arena.

È una scena che racconta la tensione mentale a cui Djokovic si costringe negli Slam, lo stretto regime di concentrazione in cui ha deciso di ingabbiarsi in questi Australian Open. Dopo la partita ha detto: «Fino a quel momento non mi ero concesso distrazioni extra tennistiche o anche di altro genere, come problemi fisici; ho voluto evitare che qualcosa disturbasse la mia concentrazione. Rimanere concentrato e prendere le cose giorno dopo giorno per vedere dove sarei potuto arrivare ha richiesto uno sforzo mentale enorme».

Solo briciole per gli avversari

Eppure, da fuori, Djokovic sembra aver vinto questo Slam con fastidiosa facilità. Nel suo percorso alla finale aveva perso un solo set, contro Coucaud. Giusto un momento di debolezza. Aveva lasciato per strada appena 20 game: solo Agassi nel 2003 ne aveva persi meno (16). Questa supremazia spudorata non può essere arrivata senza sforzo, ma proprio affilando la propria intensità mentale a livelli rari persino per lui.

Dopo la vittoria brutale su Alex De Minaur, quasi imbarazzante da vedere, Jim Courier gli ha chiesto: «Non voglio sapere come sei riuscito a vincere in modo così netto, ma perché». In quella partita Djokovic non aveva voluto solo vincere, ma dominare. Aveva voluto schiacciare il suo avversario, che un anno fa aveva definito "un circo" la polemica sull’espulsione di Djokovic dall’Australia. La gelida risposta di Nole a Courier è stata: «Perché volevo farlo». Gli ha lasciato appena 5 game. Ai quarti ne ha lasciati 7 ad Andrej Rublev, testa di serie numero 5. In semifinale ne ha persi solo 8 contro Tommy Paul. La differenza tra questi giocatori – alcuni dei migliori al mondo – e Djokovic è sembrata un abisso. Sembrava esserci qualcosa in più, una motivazione supplementare a spingerlo.

Stefanos Tsitsipas in finale però avrebbe dovuto essere un’altra cosa. A 24 anni, dopo un 2022 di sconfitte tumultuose, in questo inizio d’anno sembra aver trovato il filo per diventare un grande giocatore. Ha dominato la sua parte di tabellone, soffrendo solo in cinque set contro Jannik Sinner. Ha un tennis elegante ma anche solido, essenziale, che ruota attorno a un servizio eccezionale e a quello che è forse il miglior dritto del circuito. Un dritto letale da ogni lato del campo, giocato con un impugnatura eastern ormai diventata retrò.

In questo torneo ha mostrato una resistenza mentale da grande campione. Ha giocato sempre meglio dei suoi avversari i punti importanti, ha raggiunto una percentuale assurda di palle break annullate (sopra l’80%). Contro Djokovic vantava un record di 2 vittorie e 1 sola sconfitta su cemento all’aperto. C’è qualcosa del suo gioco che dà fastidio al serbo. C’erano, insomma, buone premesse per una sfida equilibrata.

Sfidare un mito

Il problema è che Tsitsipas pare nutrire una specie di complesso d’inferiorità verso Djokovic. Nella finale del Roland Garros del 2021 si è fatto rimontare due set di vantaggio e da quella sconfitta ha perso altre cinque volte. La prima lo scorso maggio a Roma, dove ha rimediato un pesante 6-0 nel primo set. Nel discorso di premiazione aveva detto: «Spero di raggiungere il tuo livello un giorno», con l’aria di chi non ci crede più di tanto. Del resto, quando Djokovic ha vinto il suo primo Australian Open, Tsitsipas aveva appena dieci anni. Probabilmente il greco non ha mai vissuto coscientemente un tennis senza Nole.

Cosa si prova a giocare contro un giocatore che rappresenta il tennis stesso, ai tuoi occhi? Come si fa a non nutrire un complesso d’inferiorità? È questo uno dei segreti meglio custodito dei successi dei Big-3: che spesso i loro avversari scendono in campo già battuti. Tsitsipas ha mostrato una versione minima di sé: scadente al servizio, troppo fallosa col dritto, e che non ha saputo sfruttare l’unica piccola finestra in cui poteva tornare in partita, alla fine del secondo set, quando ha mancato un set point. Tsitsipas era per distacco il secondo miglior giocatore di questo torneo, eppure Djokovic si è dimostrato diverse categorie sopra di lui. Non il miglior spot per il tennis delle nuove generazioni.

Eppure sarebbe impietoso dare troppe colpe a Tsitsipas, visto che Djokovic ha giocato a un livello eccezionale persino per i suoi standard. Djokovic truce, arrabbiato, eppure capace di un tennis leggero, stellare, sopraffino. Ha trasformato questo Australian Open nella sua personale campagna militare. Voleva riprendersi lo Slam che aveva vinto già nove volte, quello che ha definito la sua supremazia più di ogni altro. Riprenderselo dopo che lo scorso anno non aveva potuto partecipare per quella che probabilmente considera un’ingiustizia, e cioè la deportazione per il mancato vaccino contro il Covid-19.

Le difficoltà come una benzina

È chiaro che quest’anno aveva qualcosa da dimostrare. Il difficile 2022 ha rappresentato una motivazione ulteriore nel suo percorso. Djokovic che prospera nel conflitto, che ingigantisce il suo spirito competitivo quando ha dei nemici. E, che quando questi nemici non ce li ha, deve costruirseli, e non deve nemmeno fare grande fatica per riuscirci, vista l’innegabile antipatia che spesso i media dimostrano nei suoi confronti.

Un’antipatia che nasce da alcune sue ruvidezze, da comportamenti talvolta spigolosi, da certi pregiudizi anti-slavi e, naturalmente, dall’aver rovinato la diarchia Federer-Nadal, la rivalità fiabesca per la stampa e il pubblico. Quest’antipatia agli Australian Open 2023 si è soprattutto manifestata con la polemica sugli infortuni. Dall’inizio del torneo Nole lamenta un problema alla gamba. È stato costretto a chiamare il medical timeout e ha dato segni di cedimento in un paio di occasioni.

Era strano, però, vederlo lamentarsi dei problemi e poi dimostrarsi nettamente superiore ai suoi avversari. Nasce così la polemica. A un certo punto Djokovic è sbottato: «Quando gli altri sono infortunati sono delle vittime, mentre quando sono io a essere infortunato, sto fingendo», con un riferimento nemmeno troppo velato a Rafael Nadal. Come spesso succede, però, queste polemiche hanno affinato l’istinto predatorio di Djokovic, che nella sua carriera ha dimostrato una capacità prodigiosa di trasformare l’antipatia in carburante agonistico. Le sue partite, i suoi tornei, sono spesso ammantati di significati più grandi, morali o politici. Ha giocato questo torneo con furia, rabbia e concentrazione militare, e dentro partite che spesso dominava si lasciava spesso andare a grida, imprecazioni, monologhi che rappresentavano brevi sbuffi della tensione che controllava dentro di sé.

Per quanti anni ancora?

Dopo questo Australian Open, dominato con l’atletismo di un venticinquenne, è facile immaginare che ha ancora molti Slam da vincere davanti a sé. Ma lo stress mentale, nel tennis, è più logorante di quello fisico. Per quanto ancora Novak Djokovic reggerà la tensione mentale a cui si costringe per giocare a questi livelli? Quando nel 2008 aveva vinto il suo primo Australian Open, aveva appena vent’anni e una leggerezza diversa. Era un periodo in cui voleva piacere a tutti, ma già non era sicuro di poterci riuscire. Durante il suo discorso di premiazione, spigliato e simpatico come sempre, aveva detto, indicando Tsonga: «So che il pubblico voleva che lui vincesse di più. Va bene così: vi amo lo stesso, non vi preoccupate». Quindici anni dopo è un uomo pieno di medaglie e cicatrici: sembra volerle portare tutte con lo stesso orgoglio, consapevole che non si può avere le une senza le altre.