Vincendo il Roland Garros per la terza volta, Djokovic ha stabilito l’impressionante record di 23 Slam in carriera. E ancora non si vedono eredi
E così è finita come tutti sapevamo: con Novak Djokovic sorridente con la Coppa dei Moschettieri tra le mani. Il primo uomo della storia del tennis ad arrivare a quota 23 Slam: ormai tre in più di Roger Federer, uno in più di Rafael Nadal. È significativo che questo sorpasso sia avvenuto al Philippe Chatrier, l’arena rossa dai fianchi larghi su cui Nadal ha costruito il suo regno. Avvenuto contro Casper Ruud, che di Nadal per molti versi è un prodotto.
Nel suo Roland Garros la storia di una carriera: le polemiche politiche, la sofferenza fisica, l’impressione che possa cedere da un momento all’altro, sgonfiarsi come un palloncino al vento, e invece poi la vittoria, netta e sicura, che ci fa sentire degli illusi ad aver dubitato della sua invulnerabilità. Djokovic che non ha nemmeno bisogno di essere seducente ai microfoni: i numeri ormai parlano per lui.
È il miglior tennista della storia, almeno secondo i parametri che noi contemporanei abbiamo costruito negli ultimi anni. Chi avrebbe vinto più Slam a fine corsa – tra Djokovic, Federer e Nadal – si sarebbe messo la corona. È il traguardo che Djokovic rincorre da quando è nato, nutrendosi dello scetticismo altrui, o dell’odio nei suoi confronti. Ogni volta che i suoi avversari vincevano uno Slam, ogni volta che negli stadi veniva fischiato, ogni volta che un articolo sulla stampa ne rilevava i lati più oscuri, la sua foga competitiva si ingrossava.
Con la coppa tra le mani, ieri, Djokovic era calmo e senza nessun desiderio di provocazione. Può rendere serenamente l’onore delle armi al bravo e modesto Casper Ruud, cresciuto col mito di Nadal e che ha consacrato la sua vita a somigliargli il più possibile. È nato in Norvegia, terra di campi veloci e indoor, e ha costruito questo gioco esotico, un calco approssimativo del gioco di Rafa. Un gioco mediterraneo, spagnolo, di solidità e fatica, che nell’accademia di Nadal si è perfezionato fino a un livello da finale Slam. Ruud, però, è una versione banalizzata di Nadal. Una versione con la sua morale ma senza la sua epica. Con la sua affidabilità da fondo campo ma senza i suoi vincenti. Con la sua concretezza, ma senza la capacità di lottare fino all’estremo. Ruud efficiente, ma senza fuoco sacro.
Lo scorso anno al Roland Garros gli è toccata la coincidenza storica di sfidare proprio il suo idolo, in finale: era sembrato semplicemente un impostore; un giocatore che non aveva diritto a star lì, a giocarsi le sue possibilità contro una leggenda vivente. Solo l’esserci arrivato aveva rappresentato per lui una vittoria. Si era goduto la sconfitta come uno che la guardava da fuori. Uno spettacolo di impotenza rispetto a cui si era limitato a fare spallucce.
Quest’anno è arrivato più maturo. È uno che lavora, si vede, e ha aggiustato un pochino il suo malandato rovescio, è più aggressivo, e si avvicina alla rete con più disinvoltura. Tatticamente è diventato più acuto.
Cerca di scrollarsi di dosso la tensione: «Non capita tante volte di giocare una finale Slam. Cercherò di stare nella mia bolla e di mettere in campo il mio tennis migliore domenica. Non voglio mettermi tanta pressione, gioco il mio tennis migliore quando non penso troppo», dice prima della partita.
Nel primo set della finale il suo tennis rappresenta un bel grattacapo per Djokovic. Sembra quasi di vedere una finale equilibrata. Il canovaccio tattico è chiaro: Ruud ha bisogno di evitare la diagonale di rovescio, Djokovic di lasciar comandare il suo avversario col dritto, specie dal lato sinistro. Nole ha più esperienza, più soluzioni: può permettersi di cambiare contesto dello scambio come vuole; Ruud ha più gambe, e se lo scambio si allunga ha più possibilità. Lo sfidante ha bisogno di una partita di scambi da fondo campo, di sudore, che si prolunghi nei punti, nei game, nei set, correndo verso il fondo del punteggio nel tennis.
Quando lo scambio si incatena alla diagonale di rovescio, quella più fruttuosa per il serbo, Ruud ha studiato un modo per uscirne: delle palle alte e cariche di top-spin profonde e centrali. Sono palle senza peso, da colpire sopra la spalla. Djokovic prova a girarci attorno col dritto ma perde i riferimenti, disarticola il suo corpo per colpire, è sempre fuori misura. Ivanisevic gli dice di anticiparlo, di accorciare la vita di quel top-spin, ma Djokovic ci mette un po’ a disinnescarlo. Il primo set è duro e indecifrabile. Quando lo scambio si allunga, Ruud vince quasi sempre il punto: 3/4 delle volte, secondo le statistiche.
Eppure Ruud continua a temere lo scambio lungo, perché nessuno sano di mente vuole stare a scambiare da fondo con Djokovic. Ma è un timore verso il fantasma di Djokovic, verso la sua aura di grandezza, più che verso il Djokovic reale, che quel giorno è appannato e traballante sulle gambe. Quando si va oltre i cinque o sei colpi Djokovic pare a corto di fiato, si aggrappa alla racchetta, le mani sulle cosce, lo sguardo a terra.
Cosa succede? Per un attimo cade il velo di Maya, lo vediamo davvero invecchiato, come quando vediamo Dorian Gray in controluce, con indosso i segni febbrili e macabri del suo ritratto. Cosa deve fare? Giocare sulla resistenza o provare a sciogliere il braccio? A dire il vero è tutto il torneo che non gira, che la sua velocità di crociera sembra lievemente inferiore del solito. Anche le sue scelte sembrano più scontate, meno brillanti.
Djokovic sembra sul filo del collasso, ma a volte sembra dover arrivare al fondo delle proprie possibilità per darsi la spinta per arrivare ancora più in alto. È uno sportivo di resurrezioni miracolose, che si finge morto come tattica predatoria.
Quando si arriva al tie-break la velocità dei colpi di Djokovic sale, le gambe ricominciano a girare. Nei primi due punti tocca il vertice del suo tennis, e ormai non ci stupiamo più di questa sua capacità quasi algoritmica di salire di volume e intensità proprio quando si giocano i punti decisivi. Ruud sembra aver tirato un vincente, con un dritto incrociato che prende una traiettoria stretta che esce dal campo. Djokovic però arpiona la palla e non si limita a un colpo difensivo, ma tira un vincente lungolinea che racchiude tutta la sua energia disperata, la forza che prolifera nell’avversità.
In quel tie-break Djokovic salta come un grillo da una parte all’altra del campo e nessuno sa dove prenda quelle energie. Ruud allora comincia a disintegrarsi. Quell’altro gli fa dei punti clamorosi, e lui in più commette brutti errori perché ormai ha il suo avversario nella testa. È quello il momento in cui Djokovic vince le partite: quando riesce a piegare la resistenza mentale dei suoi avversari, quando gli fa credere di essere impotenti.
Eccovi una statistica incredibile, tra le tante: Djokovic ha giocato 55 punti nei tie-break in questo Roland Garros, e non ha commesso nemmeno un errore non forzato. Djokovic vince il tie-break 7-1 e la partita sembra francamente finita, e poi in effetti lo è, abbiamo imparato a conoscere Djokovic e l’andamento di queste finali. Durante il torneo ci aveva messo un po’ a prendere le misure a Davidovich Fokina e Khachanov, ma quelle partite poi erano diventate stranamente semplici dopo un inizio difficile.
Ruud e Djokovic hanno giocato contro 4 volte ed è andata sempre allo stesso modo: il norvegese ha dato filo da torcere nel primo set e poi, dopo una sconfitta spesso al tie-break, si era sciolto. Anche stavolta quel primo set sembra aver ucciso agonisticamente e spiritualmente Ruud. Il suo gioco sembra troppo banale per Djokovic. C’è voluto un set per decriptarne il codice – le palle alte sul suo rovescio, le accelerazioni di dritto – ma poi è un libro aperto. Djokovic ora parte con qualche secondo d’anticipo ogni volta che parte il dritto di Ruud. Lo legge, lo assorbe, risponde mettendolo sempre in difficoltà.
Quando le cose si mettono bene, e a Ruud è rimasto solo il dritto come colpo sicuro a cui aggrapparsi, Djokovic si mette a martellare pure quello. Accetta la diagonale sul dritto, col proprio dritto, come se volesse togliere l’ultima certezza al suo avversario. Lo sfida nel suo punto di forza, cercando di comunicargli di essere più forte di lui anche in quello. Ci riesce.
Ora va detto che Ruud nel terzo set riesce a rimettersi in piedi e a opporre un minimo di resistenza, qualcosa di non scontato; comunque non c’è nemmeno un momento in cui dubitiamo della vittoria di Djokovic. Non si può chiedere di più a Casper Ruud, che pare comunque soddisfatto dello standard d’élite che è riuscito a raggiungere a sorpresa in questi anni.
È la terza finale Slam che perde; ne ha giocate tre delle ultime cinque. È ancora giovane e si candida a una carriera di piazzato di successo. È numero quattro del mondo, mentre Djokovic è il numero due: la differenza è tale che la vittoria non è mai stata in discussione. Guardandoci indietro, allora, l’unico momento in cui Djokovic ha rischiato davvero di uscire dal Roland Garros è stato in semifinale, quando si è trovato di fronte un avversario dalla pasta simile alla sua. Carlos Alcaraz sembrava essere venuto a capo dell’enigma Djokovic. Aveva perso il primo set ma poi il suo tennis era salito di intensità, di velocità, di rabbia.
Aveva cominciato a tirare vincenti a tutto campo, e quando sbagliava era per esuberanza e non per mancanza di possibilità. Djokovic cercava di contenere la mareggiata come poteva, e a tratti è sembrato vederlo impotente come solo Federer in alcuni momenti lo aveva trasformato. Alcaraz aveva vinto il primo set, e il suo tennis sembrava poter salire all’infinito, finché non è imploso. La sua gamba s’è bloccata per i crampi: un accumulo di tensione agonistica che gli ha portato il conto nel momento più inatteso.
Djokovic ha vinto la partita solo grazie al peso della sua storia, e della sua presenza, del livello di eccellenza che impone ai suoi avversari, e che non è sostenibile troppo a lungo. Una partita sfortunata per lo spettacolo, e con una fine ingiusta, ma che racconta bene il potere oscuro, magnetico, invisibile di Novak Djokovic.
Wimbledon è alle porte ed è il torneo in cui più di tutti Djokovic entra da favorito. I 23 Slam non sembrano affatto un punto d’arrivo, ma adesso che siede sulla cima incontrastato, nel posto per cui ha lavorato per tutta la vita, troverà ancora le motivazioni per continuare a trasformare il tennis in questo sport esoterico?