Sportellate

Breve la vita felice della Coppa Intercontinentale

In Arabia Saudita si sta disputando il Mondiale per club, torneo che non riesce ad appassionare malgrado tutte le modifiche apportate alla sua formula

20 dicembre 2023
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Mi dicono che a Gedda si sta giocando il Mondiale per club, manifestazione che – malgrado i frequenti strati di cipria di cui è stata ricoperta – continua a non appassionare nessuno, tranne i cassieri delle squadre presenti e gli appassionati che vivono in quei Paesi, nel football diversamente forti, che negli ultimi anni al torneo sono stati demagogicamente ammessi o che la kermesse l’hanno addirittura organizzata. E spesso si tratta, ça va sans dire, di Stati canaglia che con lo sport cercano soltanto di sciacquarsi coscienza e faccia.

Nata nel 1960 come Coppa Intercontinentale e con l’ambizione di premiare la squadra di club più forte del mondo, ebbe l’enorme merito di costringere i sudamericani a creare l’affascinante Copa Libertadores – equipollente alla nostra Coppa dei campioni – da cui far scaturire l’avversario che avrebbe poi sfidato, in un confronto andata e ritorno, il Real Madrid che in Europa stradominava ormai da un lustro.

Molto apprezzata fin verso la metà degli anni sessanta, la competizione euro-sudamericana subì un clamoroso calo di interesse per colpa delle compagini del Nuovo mondo, che presero ad eccedere agonisticamente e a trasformare l’occasione in vergognose cacce all’uomo. Esempi celeberrimi furono i trattamenti riservati dall’Estudiantes al Manchester United nel 1968 – col Narigon Bilardo aguzzino di George Best – e l’anno successivo al Milan, mattanza che costò a Nestor Combin la frattura del setto nasale, le manette ai polsi quand’era ancora in campo e un paio di notti in cella per renitenza alla leva, dato che il francese possedeva pure il passaporto argentino: pare avesse insomma dribblato la naia.

Quell’andazzo brutale, la scarsa gloria che dava alzare la Coppa e il costo delle trasferte transoceaniche – a malapena compensato dal cachet – a un certo punto indussero i club europei a snobbare la manifestazione: l’Ajax ad esempio rinunciò due volte (a farsi bastonare al suo posto furono mandati Panathinaikos e Juventus, finalisti di Coppacampioni), ma a passare la mano furono pure Bayern, Liverpool e Nottingham Forest. Altre due volte invece, nel ‘75 e nel ‘78, per mancato accordo fra i club sulle date il duello nemmeno venne organizzato, senza che nessuno ne facesse un dramma: il fascino della manifestazione pareva infatti già esaurito, tanto da far temere che venisse cancellata definitivamente.

A salvarla, e a ridarle nuova linfa, ci pensò la Toyota, che nel 1980 comprò i diritti sull’Intercontinentale, la trasformò in una gara secca e fece in modo di giocarla sempre a Tokyo. L’appeal della nuova ambientazione esotica, della vettura in omaggio all’Mvp – e di un’altra coppa (in verità bruttina) che andava ad affiancare l’iconico trofeo – indussero pure le televisioni a investire un po’ di palanche nell’affare, certe di ricavarne un bell’utile dagli spot pubblicitari. E così, da allora la partita dei due mondi visse una seconda giovinezza e divenne una sorta di rito minore ma simpatico, da celebrare con curiosità, magari all’alba di una domenica d’avvento come fu nel 1985, con la voce portentosa di Pepi Albertini a sovrastare le trombette con cui i nipponici assistevano al match sugli spalti e a raccontarci la sontuosa partita del divino Laudrup contro l’Argentinos Juniors, quella in cui Platini si sdraiò come un antico romano sul triclinio dopo che il tedesco Roth aveva annullato, non si sa bene perché, il gol più bello della sua carriera.

Passato remoto: ora, come detto, il circo è stato paternalisticamente allargato a dismisura – e presto lo sarà ancor di più – per illudere le più insignificanti periferie del pallone di contare qualcosa, ma soprattutto per fare cassetta. La collocazione nel calendario, però, è fastidiosa come un dito non dico dove, e le squadre importanti vi prendono parte un po’ controvoglia. Specie quelle sudamericane – che infatti non alzano più il trofeo da una vita – i cui giocatori non vogliono certo impegnarsi troppo, rischiando magari di farsi male in un periodo cruciale, quello in cui spesso stanno definendo i loro futuri lucrosi contratti coi club europei.