Questa settimana si torna a giocare la Coppa più importante, e gli ottavi propongono una sfida fra due club capaci nel passato di lasciare il segno
Fra le prime sfide degli ottavi di finale della corrente stagione di Champions, che prendono il via domani, ce n’è una che – per via delle squadre che metterà di fronte – ci riporta molto indietro nel tempo. Parliamo di Bruges - Benfica, che andrà in scena mercoledì sera nella città fiamminga.
La squadra portoghese, si sa, è una nobile decaduta del calcio europeo: vincitrice di ben due Coppe dei Campioni consecutive all’inizio degli anni 60, la compagine di Lisbona – pur continuando a dominare (in coabitazione col Porto) il campionato lusitano – dopo quei tempi ormai remoti non è più riuscita a incidere il proprio nome sul alcun trofeo continentale. Colpa, si dice, di un anatema lanciato contro il club da un suo vecchio allenatore.
Prima di parlare di quella maledizione, comunque, ci concentreremo sui belgi del Bruges, che tornano a giocare un match a eliminazione diretta della competizione che mette in palio la coppa dalle grandi orecchie dopo trent’anni esatti. Eppure, ci fu un’epoca in cui non era affatto difficile vedere i nerazzurri ai piani alti del football internazionale.
Erano gli anni 70, e il calcio belga beneficiava – di sponda – della rivoluzione copernicana che aveva travolto il mondo del pallone per mano degli olandesi e del loro calcio totale. Essendo cugini e vicini di casa, fu piuttosto normale che fra i primi a seguire i nuovi dettami del gioco ci fossero proprio i belgi.
Ciò che venne fatto a Liegi, a Bruxelles, a Bruges e un po’ ovunque nel Paese, ad ogni modo, non fu semplicemente fotocopiare e far proprio quanto di nuovo i Tulipani avevano apportato alla disciplina.
I belgi, infatti, da subito diedero una lettura e una interpretazione personale di quella sorta di Riforma: un po’ meno pressing e molta più tattica del fuorigioco, potremmo dire per riassumere davvero in breve in che cosa la sotto-scuola belga si differenziava dalla dottrina-madre predicata dai cugini Oranje.
Il miracolo belga, meno banale di quanto si possa essere portati a pensare oggi, si deve soprattutto a un paio di grandi allenatori che oggi avrebbero entrambi più di cent’anni: Raymond Goethals (classe 1921) e Guy Thys (nato l’anno seguente), che coi loro club e alla guida della nazionale dei Diavoli Rossi – reinterpretando i testi olandesi – riuscirono a far toccare al calcio belga vette mai conosciute né prima né dopo.
Il primo fece vincere all’Anderlecht due Coppe delle coppe (’76 e ’78) e due Supercoppe Uefa (nei medesimi anni), mentre il secondo regalò alla Selezione un argento continentale (1980) e una semifinale mondiale (1986).
L’altro tecnico ricordato ancora oggi lassù come un Messia è invece un austriaco – il leggendario Ernst Happel – che nei suoi tre anni sulla panca del Bruges mise in bacheca due titoli nazionali, ma soprattutto, ed è quel che ci interessa, riuscì a guidare i nerazzurri a due finali continentali.
Nel primo caso (’75-’76) si trattò dell’atto conclusivo della Coppa Uefa, raggiunto dopo una cavalcata che vide il belgi eliminare nell’ordine squadre del calibro di Lione, Ipswich Town, Roma, Milan e Amburgo.
Nella doppia finale – allora si usava così – i belgi si arresero (ma solo di misura) al Liverpool, squadra che si apprestava a diventare una leggenda: sconfitta per 3-2 ad Anfield e 1-1 nella gara di ritorno. Nel secondo caso si trattò invece addirittura della finale di Coppa dei Campioni, che nel ’78 si giocò a Wembley.
A sconfiggere il Bruges furono di nuovo i Reds, con un gol di Kenny Dalglish a metà del secondo tempo. Anche in quell’occasione, il cammino dei ragazzi di Happel fu notevole, dato che riuscirono a fare lo scalpo a Panathinaikos (finalista qualche anno prima), Atletico Madrid (idem) e Juventus.
Erano come detto altri tempi, ormai preistoria, con i pali delle porte non di rado ancora a sezione quadrata, con partite giocate spesso il mercoledì pomeriggio e con una copertura televisiva di livello poco più che amatoriale. Ma i valori in campo erano eccelsi, in certi casi assai più di oggi, dato che a prender parte alla Coppa più importante era solo il campione nazionale.
Ad affrontare il Bruges dopodomani, come detto, sarà il Benfica, club che – al contrario di quello belga – dal salotto buono del football continentale non si è praticamente mai allontanato, avendo sempre (o quasi) bazzicato le fasi cruciali delle più importanti manifestazioni. Il problema è che i lusitani, pur avendo spesso fatto 30, non hanno mai fatto 31. Quantomeno, non negli ultimi 61 anni. A tanto, infatti, ammonta l’imbarazzante digiuno internazionale della più prestigiosa società portoghese.
Vinto il massimo trofeo nel ’61 e nel ’62 – mettendo finalmente un termine al despotismo madridista – i lusitani parevano destinati a perpetuare un dominio continentale che sarebbe durato un bel po’ di anni. Schieravano infatti fior di campioni (Coluna, Torres ed Eusebio), ma soprattutto erano guidati in panchina da uno dei tecnici più capaci e carismatici dell’intera storia del calcio mondiale, vale a dire Béla Guttmann, santone ebreo ungherese – scampato alle camere a gas per un incredibile colpo di fortuna, al contrario di tutti i suoi parenti – dalle cui labbra pendevano dirigenti, giocatori, giornalisti e tifosi in ogni angolo del mondo, avendo egli giocato e allenato davvero ovunque.
Eppure, sarà proprio questo straordinario e romanzesco personaggio a lanciare la maledizione che, ancora oggi, impedisce al Benfica di aggiudicarsi qualsiasi trofeo a livello europeo.
«Mi avevate promesso un premio se avessimo bissato il successo in Coppa dei Campioni, e io adesso voglio i miei soldi», disse Guttmann al presidente delle Aquile. Pur di non sganciare il grano, il boss si aggrappò al fatto che quell’anno la squadra era giunta solo terza in campionato, risultato ritenuto fallimentare.
L’allenatore, capito che di trippa per gatti non ce n’era davvero neanche un boccone, decise allora di andarsene sbattendo la porta. Non prima, però, di ruggire le parole che, da oltre sessant’anni, popolano gli incubi di ogni tifoso biancorosso: «Per i prossimi cent’anni nessuna squadra portoghese sarà campione continentale due volte di fila. E il Benfica, senza di me, non vincerà mai più nessuna coppa europea».
Mai alcuna maledizione si dimostrò più efficace: il club simbolo di Lisbona, infatti, pur provandoci infinite volte – e spesso andandoci assai vicino – dal lontano 1962 non è più riuscito ad alzare il minimo trofeo continentale, neanche – per dire – una misera Mitropa o una ancor più triste Intertoto.
Da ormai 62 stagioni, il maleficio che incombe sul club gode ancora di perfetta salute: le Aquile, dopo la famosa profezia, hanno perso 3 finali di Coppa Uefa (’83, 2013 e 2014) e ben 5 di Coppa Campioni (’63, ’65, ’68, ’88 e ’90), numeri che fanno rivalutare perfino la Juventus.
A spezzare il maleficio non bastò nemmeno il pellegrinaggio di Eusebio al Zentralfriedhof di Vienna, sulla tomba di Guttmann, l’uomo che lo scoprì e ne fece una leggenda. Era la vigilia della finale fra Milan e Benfica del 1990.
La Pantera Nera posò dei fiori, pregò, e chiese perdono al suo vecchio mentore a nome di tifosi e dirigenti. Ma invano: ad alzare al Prater la Coppa dalle grandi orecchie furono i rossoneri.