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Il gruppo che rese leggenda il Bayern

Ormai quasi mezzo secolo fa irruppe sul maggior palcoscenico continentale un grande club destinato a scrivere fondamentali pagine del calcio europeo

7 marzo 2023
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Fra il ciclo dell’Ajax – che fruttò ai Lancieri tre titoli consecutivi dal ’71 al ’73 – e l’epoca del dominio inglese, che vide finire Oltremanica ben 7 trofei dal ’77 all’84, l’albo d’oro della Coppa dei campioni conobbe l’esaltante interregno del Bayern Monaco, che vinse le finali del ’74, del ’75 e del ’76. I bavaresi furono i primi tedeschi ad aggiudicarsi la massima competizione continentale e vi riuscirono, come detto, nella primavera del 1974.

Erano tempi particolari: il mondo, fresco di Sessantotto, usciva da un inverno caratterizzato dalla famosa crisi energetica che obbligò a razionare i derivati del petrolio e che costrinse mezza Europa a bandire il traffico motorizzato per diverse domeniche. A bruciare benzina e a premere sul gas come non ci fosse un domani fu invece appunto il Bayern che, dopo due titoli nazionali consecutivi, in quei mesi aveva trionfalmente marciato verso la finale in programma all’Heysel, stadio di Bruxelles non ancora tristemente famoso per i 39 morti che nel 1985 funesteranno un altro atto conclusivo del torneo che mette in palio la Coppa dalle grandi orecchie. A sfidare i campioni della Germania occidentale, il 15 maggio 1974, erano gli spagnoli dell’Atletico Madrid, pure loro debuttanti all’appuntamento più prestigioso del football europeo per club.

Partita da rigiocare

Si trattò della finale più equilibrata che si fosse mai vista nella quasi ventennale storia della manifestazione, tanto che al minuto 115’ – dunque a tempi supplementari ormai quasi finiti – il risultato era ancora inchiodato allo 0-0. Ma poi, l’ingenuo fallo di un difensore tedesco al limite dell’area aveva permesso ai Colchoneros di passare in vantaggio, su punizione. A calciarla perfettamente – a giro d’interno destro dopo breve rincorsa – era stato Luis Aragones, trentaseienne giocatore simbolo del club madrileno.

A quel punto, agli spagnoli sarebbe bastato fare un po’ di melina per poter finalmente alzare quella coppa che così tante volte erano stati capaci di vincere i rivali cittadini del Real. Ma evidentemente non era destino, dato che – proprio al 120’ – il Bayern riuscì a pareggiare con Schwarzenbeck e a ricacciare in gola agli iberici il grido della vittoria. La mazzata psicologica fu tale che due giorni dopo, nella ripetizione della finale (fu l’unica volta che si resa necessaria in Coppacampioni, mentre in ben tre occasioni avvenne in Coppa delle coppe) gli spagnoli vennero demoliti 4-0 grazie alle doppiette di Gerd Müller e Uli Höness.

Per la maggior parte dei tedeschi, fu il match che lanciò le proprie leggendarie carriere, mentre per Aragones fu l’ultima partita da giocatore. Passò infatti direttamente ad allenare la sua squadra, per la prima di una quindicina di avventure in panchina che ne fecero uno dei tecnici migliori della propria generazione, capace di condurre la nazionale spagnola al titolo europeo del 2008, primo mattone di un ciclo strepitoso.

Breitner e Lattek

Un Europeo, nel 1972, l’avevano conquistato anche molti elementi di quel Bayern vincitore a Bruxelles, formidabile gruppo che poche settimane più tardi avrebbe regalato alla Germania Ovest pure il Mondiale casalingo del ’74. Parliamo di giocatori come Maier, Schwarzenbeck, Müller, Höness e Beckenbauer, tutta gente che al club bavarese aveva giurato fedeltà. Tutti tranne Paul Breitner, famoso calciatore marxista che però non si fece scrupolo alcuno ad accettare le lusinghe e i milioni del Real Madrid, squadra del dittatore fascista Francisco Franco dove si trasferì appena conclusa la Coppa del mondo.

E a levar le tende, qualche mese dopo, fu pure il tecnico Udo Lattek, che lasciò il Bayern per accasarsi al Borussia Mönchengladbach, società con cui avrebbe vinto fra le altre cose una Coppa Uefa. Quando poi all’inizio degli anni 80 alla guida del Barcellona conquistò pure la Coppa delle coppe, divenne il primo allenatore a metter le mani su tutt’e tre i principali trofei continentali, exploit riuscito dopo di lui solo a Trapattoni e Mourinho.

Dopo quel primo trionfo europeo, il Bayern decise di non partecipare alla sfida di andata e ritorno che metteva in palio la Coppa Intercontinentale, come del resto aveva fatto pure l’Ajax l’anno precedente: le squadre sudamericane ai quei tempi mettevano in campo fin troppa garra, e c’era davvero il rischio di farsi male. A giocare fu dunque l’Atletico Madrid, che ebbe la meglio sugli argentini dell’Independiente e poté dunque mettere in bacheca un’Intercontinentale pur non avendo mai alzato la Coppa dei campioni.

Il bis

La seconda finale – quella del 28 maggio 1975 – i bavaresi la giocarono invece al Parc des Princes, dove trovarono ad attenderli il Leeds United che nei quarti aveva eliminato lo Zurigo. Era la squadra dei leggendari scozzesi Pete Lorimer, Billy Bremner e Joe Jordan, ex Squalo milanista che nel 2011 a San Siro – quando era vice allenatore del Tottenham – proprio in una sfida di Champions League contro i rossoneri fece a botte con Gennaro Gattuso, che ancora giocava.

Ad allenare gli inglesi nella finale di Parigi c’era Jimmy Armfield, iconico difensore del Blackpool degli anni 60 e colonna della nazionale che regalò all’Inghilterra il suo unico Mondiale: peccato che si fece male all’inizio del torneo, e non poté mai scendere in campo. Armfield, qualche mese prima della finale contro il Bayern, aveva preso sulla panca del Leeds il posto del mitico Brian Clough, che aveva ricoperto il ruolo per soli 44 giorni, vicenda magistralmente narrata fra l’altro anche nel film cult ‘Il maledetto United’. Clough se n’era andato al Nottingham Forest, squadra antichissima ma marginale che lui seppe portare a vincere addirittura due Coppe dei campioni.

Alla fine, il Bayern vinse abbastanza facilmente 2-0, con reti di Roth e Müller negli ultimi 20 minuti. Ma sulla panca bavarese, al posto di Lattek, chi c’era? Dettmar Cramer, tedesco di Dortmund che nella seconda guerra mondiale aveva combattuto da tenente paracadutista al fianco dei giapponesi e che, una volta smessa la divisa, proprio nel Paese del Sol levante aveva deciso di andare a vivere e a insegnare calcio, divenendo pure per diversi anni tecnico della nazionale nipponica. Dopo aver diretto anche Egitto e Stati Uniti, tornò in Germania occidentale per occuparsi dell’Herta Berlino, che tradì dopo poche settimane per sedersi appunto sulla panchina del Bayern abbandonata in corsa da Lattek.

E alla fine arriva Kalle

La terza finale consecutiva del club di Monaco, giocata a Hampden Park il 12 maggio del ’76, fu la prima per la nuova stella del calcio della Brd, vale a dire il ventenne Karl-Heinz Rummenigge, attaccante al contempo tecnico e potente capace poi di aggiudicarsi ben due volte il Pallone d’oro. Fu in quella partita di Glasgow – vinta 1-0 sul Saint-Etienne di Janvion, del futuro Ct francese Santini, dei due Revelli e di un Rocheteau a mezzo servizio – che Uli Hoess, appena ventiquattrenne, rimediò l’infortunio al ginocchio da cui non riuscirà mai a riprendersi del tutto e che infine lo costringerà a ritirarsi, dopo mille peripezie, a soli 27 anni. Fu l’ultimo grande trionfo di quel Bayern, i cui senatori stavano per imboccare il viale del tramonto, lasciando Rummenigge troppo solo per poter immaginare di tornare sul tetto d’Europa. L’anno seguente, infatti, Beckenbauer (pure lui doppio Pallone d’oro) si imbarcò sull’aereo che lo avrebbe portato a New York, dove in tre stagioni vinse con la maglia del Cosmos altrettanti titoli Usa. Il Kaiser rientrò poi brevemente in patria per vincere un’altra Bundesliga nelle file dell’Amburgo e infine tornare ad attraversare l’Atlantico per accasarsi di nuovo ai Cosmos. In seguito divenne un famoso selezionatore (vinse la Coppa del mondo nel 1990, l’ultima della Germania Ovest) prima di appropriarsi della poltrona di presidente del Bayern, trono che qualche anno più tardi cedette all’ex compagno Uli Höness, il quale – fra l’altro unico superstite di un incidente aereo nel 1982 – ricoprì l’incarico durante due diversi mandati, inframmezzati da 21 mesi di detenzione (espiati) per un’evasione fiscale (personale) di ben 28 milioni di euro.

A emigrare in America per un paio di stagioni – destinazione Fort Lauderdale, Florida – fu pure Müller, il bomber per antonomasia del calcio tedesco, capace di firmare 404 reti coi bavaresi (in 459 presenze) e addirittura 68 nella Mannschaft (in sole 62 partite). Gerd, da tempo ostaggio della demenza senile, ci ha lasciato nell’estate del 2021, mentre di ottima salute godono ancora altre due bandiere di quella strabiliante squadra che dominò la metà degli anni Settanta, vale a dire il difensore Hans-Georg Schwarzenbeck e il portiere Sepp Maier, che durante le loro carriere non vestirono mai altra maglia che quella del Bayern.