L’Argentina scesa in campo ieri contro l’Arabia Saudita è sembrata sprovvista di un’anima. Ma forse abbiamo sottovalutato certi piani divini
Quarant’anni dovettero passare gli ebrei nel deserto prima di arrivare nella terra promessa di Canaan. La leggenda biblica narra che il popolo di Israele fu liberato dal giogo di Ramses dopo le dieci piaghe abbattutesi sull’Egitto per volontà di Dio. Gli schiavi israeliti, guidati da Mosè, l’eletto, lasciarono il Paese delle piramidi e s’incamminarono verso il deserto del Sinai. A guardare la posizione sulla cartina, sarebbero dovuti bastare alcuni mesi – al massimo – per una traversata a piedi di quel pezzo di terra che separa l’Egitto da quello che oggi conosciamo come Israele. Ma i piani di Dio erano altri: un’intera generazione doveva perire durante il percorso. Uomini e donne che avevano osato adorare il Vitello d’oro, mentre Mosè si trovava al Monte Sinai per ricevere i dieci Comandamenti.
Sono trentasei gli anni, più qualche mese, quelli trascorsi da quando Diego Armando Maradona alzò al cielo la Coppa del mondo allo stadio messicano Azteca. Da allora le delusioni calcistiche ai Mondiali dell’albiceleste sono una costante. Si dirà che è ancora presto per pronunciare una sentenza definitiva sulle prestazioni della Nazionale argentina in Qatar: è vero. Tuttavia, il deludente esordio di una delle principali candidate a vincere il titolo più prestigioso non lascia spazio a grandi illusioni. Speriamo di sbagliarci. Ma la squadra scesa in campo ieri contro l’Arabia Saudita è sembrata soprattutto sprovvista di un’anima. Incapace di reagire di fronte alle avversità. Pure quando, nel primo tempo, la fortuna stava tutto sommato dalla parte degli argentini, questi si sono dimostrati non in grado di tradurre nel risultato un’evidente superiorità.
L’Arabia Saudita difendeva molto alta, giocando con la regola del fuorigioco come se fosse il Milan ai tempi di Arrigo Sacchi. Chiaro che i due difensori centrali arabi non si chiamano né Baresi né Costacurta. Ciononostante, sono riusciti a creare una trappola in cui gli argentini sono caduti ripetutamente. C’è poi lo psicodramma a inizio ripresa: due gol in cinque minuti dei sauditi che hanno messo in ginocchio la squadra dei due Lionel, Messi e Scaloni. Nemmeno i cambi hanno aiutato i sudamericani a trovare idee e spazi per ribaltare le sorti di una partita atipica. Il clamoroso risultato ha difatti messo fine a una scia di 36 partite in cui l’Argentina non aveva conosciuto il sapore amaro della sconfitta. Quella andata in scena ieri nel lussuoso Lusail Stadium è senza dubbio una delle più umilianti della storia del calcio argentino, forse paragonabile soltanto a quella dell’esordio in Italia ’90 contro il Camerun (non so chi ha pianto di più: io in quella brutta giornata invernale di Buenos Aires o ieri mio figlio Zoilo – dodicenne, come me allora – mentre rientrava a scuola dopo la "tragica" pausa pranzo).
In effetti, a volersi aggrappare a un qualche precedente che lasci acceso un lumicino di speranza per Messi e compagni, bisogna tornare alla Milano di 32 anni fa. Dopo la batosta contro gli africani, la squadra di un Maradona che giocava infortunato (aveva una caviglia gonfia come una pallina da tennis) riuscì a qualificarsi agli ottavi di finale per il rotto della cuffia. Il destino volle che quell’Argentina malconcia arrivasse di nuovo in finale, di nuovo contro la Germania. Sappiamo tutti com’è andata poi a finire la partita decisiva giocata a Roma.
In Qatar molti vogliono vedere Messi alzare il trofeo di quello che dovrebbe essere il suo ultimo Mondiale. La Coppa America vinta contro il Brasile l’anno scorso e in particolare la scomparsa di Diego (venerdì si compiono due anni giusti giusti dalla sua morte), dicevamo in tanti, sembravano aver tolto un peso dalle spalle del trentacinquenne di Rosario. Tutto pareva indicare, insomma, che questa edizione della Coppa del mondo dovesse essere per forza quella giusta. Lo scopriremo nelle prossime settimane. Oggi viene da dire però che forse abbiamo sottovalutato certi piani divini: un’intera generazione che ha – troppo – adorato il Pibe de oro dovrà molto probabilmente perire prima di vedere di nuovo l’Argentina vincere un Mondiale.