La sfortunata storia in giro per l'Europa di un giovane calciatore africano, prima ingannato e derubato dai procuratori e poi infortunatosi gravemente
Victor Osimhen è l’attuale detentore del premio di Calciatore Africano dell’Anno. Un riconoscimento che per la Nigeria mancava da oltre vent’anni, dai tempi di Nwankwo Kanu. Osimhen, come prima di lui Mané, Yaya Touré e Drogba, rappresenta il vertice della piramide calcistica del continente africano, dal quale provengono numerose storie di riscatto e successo attraverso il calcio, con lieto fine non solo legato all’ambito puramente sportivo. Basti pensare alla beneficenza che ha visto coinvolte a più riprese le stelle sopra citate nei confronti delle persone in difficoltà nei rispettivi Paesi di origine. Per ogni storia di successo, però, ce ne sono decine che imboccano la traiettoria opposta, non necessariamente a causa della mancanza di talento. Perché alla base della piramide calcistica africana il sogno di una carriera professionistica nell’Europa del pallone può facilmente sfumare in un incubo. La storia del nigeriano Chukwuemeka Livinus Okorie ne è il perfetto esempio.
Okorie, conosciuto anche come Mimi tra gli amici, ha 25 anni ed è in Europa dal 2018. Non solo non ha mai sfondato, ma non è nemmeno riuscito a sviluppare una carriera da professionista, a dispetto di qualità tecniche e fisiche notevoli. La sua odissea si è sviluppata tra campi profughi, stipendi mai pagati e soldi fatti sparire da sedicenti procuratori. È riuscito a far sentire la propria voce grazie ad Ard Sluis, uno dei numerosi allenatori olandesi giramondo che insegnano calcio nei luoghi e nelle condizioni più estreme. Sluis è stato otto anni in Nigeria, ha fatto trasferte nei territori controllati dai terroristi di Boko Haram, è sopravvissuto alla malaria e ai posti di blocco di milizie paramilitari locali, e potrebbe raccogliere in un libro tutte le sue esperienze fuori dall’ordinario.
Ha incrociato Mimi Okorie nella scuola calcio che gestiva a Enugu, paese a 25 chilometri dalla città dove era nato e cresciuto questo ragazzo che, a detta di Sluis, ricordava fisicamente Drogba e che, se fosse nato in Europa, avrebbe sicuramente sfondato. «Non è il solito discorso trito e ritrito sullo sconosciuto potenzialmente più forte delle star affermate», afferma Sluis. «Il punto è un altro. Io ho visto degli Hazard migliori dell’originale negli anni dell’adolescenza. La differenza l’hanno fatta i luoghi dove sono cresciuti, la carenza di strutture e di scout, la difficoltà nell’imbastire un percorso lineare. È il rovescio della medaglia della grande favola del pallone: invece di giocare a calcio in stadi pieni, questi ragazzi diventano rifugiati, dormono per strada, spesso devono accontentarsi di salari minimi e vengono regolarmente truffati da presunti agenti».
Okorie è cresciuto sulla strada, tra pietre messe come pali per le porte e sabbia usata per coprire gli oggetti duri che spuntavano dal terreno. Un background di assoluta povertà che si è riflesso nel primo contatto per il tanto agognato passaggio in Europa. Durante un torneo locale nel periodo natalizio fu adocchiato da un ex calciatore con un passato nel campionato serbo. Gli disse che avrebbe fatto qualche chiamata, a patto che perdesse qualche chilo perché gli sembrava un po’ sovrappeso. Mimi lo sapeva, ma nel mondo dove era cresciuto il concetto era semplice: se hai del cibo devi mangiarlo, perché non saprai mai quando sarà il prossimo pasto.
Qualche mese dopo l’affare va in porto, ma a una condizione: tocca a lui pagarsi il biglietto aereo per la Serbia. I soldi Okorie li raccoglie tra amici e parenti, contraendo debiti che ha finito di pagare solo lo scorso anno. Fa uno stage all’FK Proleter, quindi con l’FK Backa Palanka, per poi trovare un ingaggio allo Sloboda Uzice, seconda divisione del campionato serbo.
La parola ingaggio andrebbe però messa tra le virgolette, visto che Okorie non firma nulla. E nemmeno lo pretende, perché in Nigeria nessuno gli ha mai spiegato il concetto di contratto. L’accordo è per 400 franchi mensili, ma i pagamenti sono saltuari e incompleti. Arrivavano direttamente dal presidente, che a fine allenamento gli passava dal finestrino della sua auto una busta di plastica contenente un centinaio di franchi.
Okorie si allena duramente, segna con discreta regolarità ma durante una partita riceve un brutto calcio nel ginocchio. Il dolore non se ne va nemmeno nei giorni successivi, ma non avendo né contratto né assicurazione il club si rifiuta di portarlo in ospedale. In più, Uzice non è proprio una città ospitale con gli immigrati.
La seconda tappa del suo viaggio è la Slovacchia, dove grazie a un video caricato su internet trova un aggancio con l’Skf Sered. Il giovane nigeriano si paga di tasca propria il viaggio in treno da Belgrado a Bratislava. Okorie è privo di qualsiasi contatto, viaggia da solo e deve arrangiarsi a fare tutto. Dopo poco tempo gli scade il visto e la società preferisce ingaggiare un altro attaccante. In Slovacchia non può più rimanere e finisce in Germania, nel campo profughi di Schweinfurt, città vicino a Francoforte.
Al problema di trovare una squadra si aggiunge quello, ben più pressante, del dolore al ginocchio. Prova a curarsi da solo cercando dei rimedi sul web. Quando finalmente riesce a trovare un medico, grazie a un’associazione umanitaria tedesca, il dottore rimane colpito dalla sua pressione sanguigna, esageratamente alta per un ragazzo della sua età.
Le ragioni derivano dalle situazioni di stress e ansia permanente con le quali Okorie deve convivere tutti i giorni. Solo, in Paesi di cui non conosce abitudini e culture, con la paura di essere espulso da un momento all’altro e la consapevolezza che quel biglietto per l’Europa comprato l’anno prima sia stato di sola andata. Perché in Nigeria non può tornare. La situazione è instabile, pericolosa, e la sua famiglia non ha un soldo. Lui dovrebbe essere la soluzione ai loro problemi, non una ulteriore causa.
Attraverso un operatore del centro per richiedenti asilo, Okorie riesce a trovare una nuova squadra, i dilettanti dell’SV Euerbach-Kützberg. Un giorno viene prelevato e portato all’aeroporto per essere rispedito in Slovacchia, la sua ultima provenienza prima dell’ingresso in Germania.
Mimi però non ha nessuna base nel Paese dell’Est Europa e riesce a tornare al campo profughi di Schweinfurt, per poi spostarsi a vivere per circa dieci mesi in un ex monastero di monaci nel villaggio bavarese di Aub. Nel frattempo si diffonde la pandemia. Giocare a calcio non è più una priorità. Conta sopravvivere. In internet Okorie scopre che un suo ex compagno di squadra in Nigeria sta giocando in Portogallo. Lo contatta via Instagram, gli chiede ospitalità e si sposta nella penisola iberica. Un nuovo Paese, una nuova ripartenza.
Inizia sempre allo stesso modo: Mimi cerca un negozio africano e prova a prendere contatto con la comunità locale che gravita attorno a esso. A Lisbona conosce un procuratore, che gli assicura di avere un aggancio con un club della capitale. Servono solo 2mila franchi per sistemare tutte le pratiche. Sono tutti i risparmi di Okorie, che si fida e glieli consegna. Il procuratore svanisce nel nulla. Un colpo devastante per il ragazzo, che sprofonda nella depressione. Non esce più dal suo appartamento. Non vive più.
Ha come dirimpettaio un ragazzo olandese, Max, che intuisce la situazione, lo fa parlare, gli dà 150 franchi e lo aiuta a rimettersi in piedi, seguendolo anche con le pratiche burocratiche. Okorie trova lavoro nel settore edile, ottiene il permesso di soggiorno in Portogallo.
Poi passa a lavorare come cameriere in un ristorante, a causa di quel ginocchio malandato per il quale il lavoro in cantiere non rappresenta certo la cura giusta. Dice che avrebbe potuto iniziare a spacciare, perché le offerte in quel campo non gli mancavano. Ma ha preferito rimanere legato ai suoi principi etici e religiosi.
Mimi Okorie non ha ancora rinunciato al suo sogno calcistico. Ha provato in Italia, al Li Punti Calcio, società amatoriale sarda che gioca nel campionato di Eccellenza, quinto livello della piramide calcistica nazionale. Gli hanno assegnato il numero 13, che per molte culture ha connotazioni negative principalmente vincolate alla religione (la Cabala ebraica, il cristianesimo, la mitologia vichinga).
In effetti nella sua vita di fortuna ne ha avuta davvero poca. Sentiva l’allenatore del Li Punti chiamarlo Balotelli, ma non capiva molto altro. Non era un paragone sportivo, ma un’etichetta appiccicata a qualcuno che temeva avrebbe potuto creare problemi. Così Okorie è tornato in cerca di fortuna dapprima in Portogallo e poi in Croazia, dove ogni giorno dopo il lavoro prende palloni e coni ed esce ad allenarsi. L’obiettivo massimo rimane il calcio, quello minimo è una vita stabile. Comunque vada, conclude, nessuna resa mai.