laR+ IL RICORDO

Pepi, basta la parola

Il 20 luglio di 35 anni fa moriva Giuseppe Albertini, uno dei più grandi narratori di sport. Il ricordo del collega Enrico Carpani

In sintesi:
  • Punto di riferimento per un'intera generazione di telecronisti, oggi sarebbe considerato noioso
  • Giuseppe Albertini riteneva che, prima di tutto, un cronista doveva preoccuparsi di piacere al pubblico
(Mondiali 86: Libano Zanolari, Giuseppe Albertini, Tiziano Colotti, Sergio Ostinelli, Enrico Carpani )
19 luglio 2023
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«Il più grande telecronista italiano di sempre? Paolo Rosi è stato il primo telecronista moderno. Ma il più grande di tutti è stato quello della Televisione svizzera… adesso m’è passato di mente il nome. Ah no, aspetta, me so’ ricordato. Giuseppe Albertini, quello della Televisione svizzera. Nessuno come lui». Il 20 luglio saranno trascorsi 35 anni dalla scomparsa del maestro di tutti i giornalisti sportivi ticinesi (e, a quanto pare, anche italiani). L’elogio con cui abbiamo aperto lo ha formulato in un’intervista dell’8 agosto 2021, dalle colonne del Corriere dello Sport, Giampiero Galeazzi. Uno il cui stile sguaiato si poneva agli antipodi rispetto alla sobrietà e alla compostezza di Albertini, ma che a tre decenni dalla scomparsa continuava a considerarlo il migliore di tutti.

Giuseppe Albertini, per tutti Pepi, era nato nel 1911 a Roma, da mamma romana e padre patrizio di Losone che aveva svolto gli studi in ingegneria al Politecnico di Zurigo per poi costruirsi una carriera professionale in Italia, dove Giuseppe seguì il percorso scolastico fino alla laurea in economia conseguita a Milano. Tornato in Ticino durante la guerra, Pepi – che come ricorda la figlia Marina, a Roma aveva stretto amicizia con Alberto Sordi — accompagnò il fratello a un provino in radio, al termine del quale venne invece assunto lui. Iniziò così la brillante carriera di giornalista sportivo, alla quale affiancò l’attività nel servizio ricreativo (giochi, commedie radiofoniche...).

Alla Televisione della Svizzera italiana ha incrociato le carriere di molti telecronisti di spicco, Tiziano Colotti, Sergio Ostinelli, Libano Zanolari, Ruggero Glaus... Ed Enrico Carpani, con il quale abbiamo voluto tracciare il ricordo di un giornalista che ha segnato una generazione, ma il cui stile era molto lontano dall’odierna narrazione delle vicende sportive.

«Ero appena rientrato dagli Europei del 1988 in Germania, la prima grande manifestazione alla quale Pepi non aveva potuto partecipare. Avevo avuto la possibilità di rendergli visita ancora una volta, poi poche settimane dopo era deceduto. Di lui serbo il ricordo di un gentleman, di una persona squisita. E di un grande professionista».

Ne eri diventato collega nel 1979… «L’avevo conosciuto appena intrapresa questa professione, io poco più che ventenne, lui già settantenne, e mi rivolgevo a lui dandogli del lei. Ma una delle prime cose che mi disse fu: “Giovane Carpani, ti ringrazio per la tua deferenza che mi fa molto piacere, ma spero di lavorare con te per molti anni, per cui diventiamo colleghi: io sono Pepi”. Non l’ho mai visto essere irrispettoso nei confronti di un collega e, se poteva aiutarti, aveva il cuore in mano. Eppure, se la sarebbe potuta tirare. In Rai aveva collaborato a lungo, ad esempio alle Olimpiadi 1968 e ai Mondiali 1970 in Messico, mentre nel 1980 Silvio Berlusconi lo aveva voluto a Canale 5 per commentare dall’Uruguay la prima edizione del Mundialito. Era molto amico di Enrico Ameri, di Nando Martellini, di Sandro Ciotti. Alla fine degli anni Sessanta, in Rai era considerato l’alter ego di Nicolò Carosio, il quale non lo amava particolarmente, proprio perché temeva la concorrenza di questo giornalista svizzero nato a Roma. In fondo, quello che ha fatto come cronista non è l’aspetto principale per il quale va ricordato: per me, la persona è stata più importante del collega».

Da Pelé all’Heysel

Quello fu il primo atto di un’assidua e duratura collaborazione… «Assieme abbiamo seguito i Mondiali 1982 in Spagna, quelli del 1986 in Messico e gli Europei 1984 in Francia, oltre a decine di partite della Nazionale svizzera, delle varie Coppe europee e a molte stagioni di hockey. A Pepi devo la mia passione per il calcio inglese: con lui avevo seguito numerose finali di Coppa d’Inghilterra, partite che la nostra Televisione trasmetteva regolarmente. In quelle occasioni, mi ero reso conto di come fosse un’istituzione anche per i colleghi stranieri, per gli italiani in particolare».

Andiamo con gli aneddoti… «Ce ne sarebbero a decine. Il primo che mi viene in mente è legato proprio a una finale di Coppa d’Inghilterra. Davanti all’entrata Vip del vecchio Wembley, aveva intravisto Pelé, lo aveva avvicinato, si era presentato e gli aveva stretto la mano. Poi, come se fossero grandi amici, gli aveva presentato anche il suo giovane collega. Una volta allontanati mi aveva confidato: ‘Questa mano non me la laverei più, è stata stretta da quella di Pelé. Che grande campione’».

Poi c’è stato l’episodio a Messico 86… «Era il 28 giugno, il giorno della finale per il terzo posto. In piena notte ebbe un problema di salute e con Tiziano Colotti chiamammo l’ambulanza per il ricovero all’ospedale. Prima, però, si trattava di decidere come fare per la finalina, perché la telecronaca spettava proprio a Pepi. Così, si decise che a Puebla, circa 150 km da Città del Messico, ci sarebbe andato Ostinelli, mentre io e Colotti saremmo rimasti con Albertini. All’ospedale, dopo gli accertamenti del caso, fu ricoverato per la notte. E il giorno dopo era nella postazione dell’Azteca per un impeccabile commento della finale tra Argentina e Germania. Quella fu la sua ultima grande partita. Nel 1987 andammo ad Aarau per un’amichevole tra Svizzera e Israele, il nostro ultimo viaggio assieme».

Nel 1985 eravate nella tribuna stampa dell’Heysel di Bruxelles per la finale di Coppa campioni tra Juventus e Liverpool… «Quella, per lui, era la 21ª finale consecutiva e tutti sappiamo ciò che successe. Avevo portato con me due amici che, con un escamotage al giorno d’oggi impensabile, ero riuscito a far salire in tribuna stampa. Quando iniziò il collegamento e gli incidenti erano già in pieno svolgimento, Albertini approfittò della diretta tivù per annunciare alle nostre famiglie che stavamo bene e che non ci era successo nulla».

Un uso privato del servizio pubblico quantomai opportuno... «A fine partita, però, lo avevamo accompagnato al suo albergo ed era completamente devastato dall’accaduto. Era una persona molto umana, sensibile, facilmente impressionabile, di un’assoluta correttezza che non ammetteva la violenza, nella vita come nello sport. Nel portafoglio portava sempre con sé un bigliettino che recitava grossomodo: ‘L’essere peggiore della specie animale è l’uomo’. Dalla sua bocca non ho mai sentito uscire una parola di troppo, una volgarità. Mi diceva: “Se fai questo mestiere, ricordati che non è tanto importante la competenza, quanto l’eleganza e lo stile con cui dici le cose”. Era l’epoca nella quale iniziavano a essere utilizzati gli opinionisti e lui li detestava cordialmente, in quanto non li riteneva utili al suo stile narrativo. In vita mia qualche “signore” l’ho conosciuto, ma Pepi Albertini li batteva tutti».

‘Oggi verrebbe ritenuto noioso’

Cosa ti ha lasciato dal profilo professionale? «Mi ha insegnato una cosa fondamentale: se fai questo mestiere devi piacere a chi ti ascolta, non pensare di dover compiacere chi è parte in causa. Per questo, non ha mai voluto avere grandi rapporti con presidenti o allenatori. Piuttosto con qualche giocatore, con i quali, tuttavia, si guardava bene dal discutere di calcio. Non apprezzava e non capiva quel cambiamento già nell’aria di giornalisti-tifosi. Per lui, l’obiettività era un dogma, così come la pacatezza e il rispetto nei confronti di chiunque. E una partita di calcio o di hockey rimaneva solo e soltanto una partita di calcio o di hockey. Oggi, uno così non passerebbe nemmeno la prima selezione, verrebbe ritenuto noioso. Eppure, possedeva un italiano forbito, una perfetta gestione della voce e un’innata moderazione che gli impediva di trascendere, nel bene come nel male. Per quelli della mia generazione è stato e rimarrà un maestro, ma tanti colleghi i suoi insegnamenti li hanno già scordati. Molti di noi hanno cercato di seguire le sue orme, altri hanno fatto più fatica o, legittimamente, hanno preferito imboccare una strada diversa. Il messaggio lo ha lasciato, chi ha voluto lo ha potuto raccogliere».

‘Non occorre essere tenori’

Da giovane aveva militato nell’Fc Locarno… «Sì, ma non ne aveva mai fatto un vanto. Allo stesso modo, rivendicava il diritto di occuparsi anche di discipline non propriamente “sue”. Lui non pattinava e non aveva mai messo un paio di sci ai piedi, eppure ha commentato centinaia di partite di hockey e di gare di sci. Era solito dire: “Ma chi lo ha detto che per giudicare un grande tenore bisogna essere stati dei tenori? Non basta avere una passione per la lirica e avere sviluppato una competenza? Non fatevi fuorviare da chi dice di aver giocato a calcio: è possibile che ne capisca molto meno di voi”. Io mi vanto di essere stato l’ultimo dei cronisti ad aver calcato le piste di ghiaccio di mezzo mondo senza saper pattinare. Ancora Pepi: “Noi dobbiamo raccontare e trasmettere emozioni, a pattinare ci pensano i giocatori. Noi siamo dei testimoni”. E non è un caso che quella generazione di cronisti sia stata spesso chiamata a commentare avvenimenti dei quali non era propriamente esperta. Nel mio caso, ad esempio, mi venne affidata la cronaca della visita di papa Wojtyla a Lugano e quando chiesi spiegazioni per la scelta, mi risposero: perché tu sai raccontare le cose. Una dote che devo, anche, a Pepi Albertini».