La fatica di tifare i giallorossi sotto il portoghese ha pochi eguali, con partite trasformate in sedute esoteriche, ballando fra trionfo e morte sportiva
Che sia una finale europea o una pigra gara casalinga con l’ultima in classifica già retrocessa, quando ti siedi a guardare ogni partita della tua squadra del cuore come se fossi sulla sedia del dentista, o sei un adolescente (e a quell’età è tutto un perdonabile, necessario agitarsi per amore, e il primo vero amore è quasi sempre una squadra di calcio) o adolescente lo sei rimasto (e qui va già meno bene) o guardi le partite davvero dal tuo dentista (de gustibus). Ma c’è una quarta via, anzi c’era. Perché ora non c’è più. Essere romanisti e seguire la Roma di José Mourinho.
Un’esperienza a sé, nuova, anche per chi – a 40 anni suonati come il sottoscritto – credeva di avere visto tutto: scudetti buttati via dopo una partita dominata in cui si era andati comodamente in vantaggio (Roma-Samp 1-2 del 2010), una finale di Coppa Uefa persa per un gol, con un palo e un’occasione fallita di tanto così negli ultimi minuti del ritorno (Roma-Inter del 1991), una serie di rimonte riuscite e poi buttate al vento (gli indigesti supplementari con lo Slavia Praga, quarti di Uefa, nel 1996) o fallite per un soffio (Roma-Torino 5-2, dopo aver perso 3-0 all’andata, nel 1993), una finale di Coppa Campioni persa ai rigori in casa (con il Liverpool, 1984, uno dei primi traumi infantili certificati da un ricordo vivido nonostante la giovanissima età), una finale di Coppa Italia persa malamente nel derby con “quel” gol di Lulic che ai tifosi giallorossi non è mai andato giù (Lazio-Roma 1-0, 2013), harakiri spettacolari (da 3-0 a 3-4 contro il Genoa, nel 2011) e tonfi quasi unici – per non farsi mancare niente – vissuti direttamente allo stadio: sconfitti 7-1 in Champions League all’Old Trafford dal Manchester United, e poi ancora, sempre 7-1 dal Bayern, all’Olimpico. A cui aggiungere un 7-1 dalla Fiorentina di Coppa Italia, qualche anno dopo (ma almeno ero altrove).
L’annuncio di Mourinho sulla panchina della Roma, il 4 maggio 2021, poteva far prevedere alcune cose, conoscendo lui, conoscendo la Roma e conoscendo soprattutto Roma. Ne sono successe molte di più e in modo molto più morboso e malato di quanto non si sarebbe osato pensare in quel momento in cui tutto sembrava possibile e c’era chi sognava il portoghese in panchina e Cristiano Ronaldo, Haaland o perfino Messi in campo.
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Uno dei tanti murales dedicati al portoghese nella capitale italiana
L’equazione pareva semplice: Mourinho va solo dove ci sono grandi giocatori e la nuova proprietà americana (i Friedkin) è piena di soldi. Peccato che quell’equazione fosse sbagliata in partenza: è vero che i proprietari della Roma sono milionari con molti zeri e potrebbero comprarsi Haaland probabilmente per metterlo anche solo a palleggiare in salotto, ma la situazione debitoria della società non permetteva grandi movimenti, come poi si è visto. Mourinho, poi, arrivava da una serie di fallimenti lunga e anche faticosa, come solo le relazioni con personalità così accentratrici possono essere.
Appena esonerato dal Tottenham (prima di una finale di Coppa di Lega), dove era riuscito a incendiare tutto come Nerone, Mou arrivava da un altro rapporto finito male e mai nato davvero, con il Manchester United, colpito come tanti – prima e dopo – dalla maledizione di Sir Alex Ferguson: dopo di lui, il diluvio (anche se il portoghese ci tiene a dire che lui un’Europa League l’ha comunque messa in bacheca, ma là ha davvero il peso – e forse anche la funzione – di un portaombrelli). Prima ancora Mourinho aveva raccolto un altro esonero, alla sua seconda avventura al Chelsea, dopo aver vinto – tuttavia – una Premier League. Fino a quel momento aveva quasi sempre scelto lui dove andare e quando andarsene (salvo già la prima volta al Chelsea, ma lì, nel frattempo, aveva vinto talmente tanto che la fine sciagurata – dopo un pareggio interno con il Rosenborg – non se la ricorda più nessuno), stravincendo al Porto e all’Inter e vincendo (ma non abbastanza) al Real Madrid.
E quindi, torniamo alle sedute dal dentista senza dentista e allo strambo matrimonio celebrato fra uno degli allenatori più vincenti della storia e una squadra che ha fondato la sua auto-narrazione sull’orgoglio, l’appartenenza, le bandiere (Amadei, Falcão, Conti, Totti, De Rossi…), le poche vittorie e – come certificato dalla mia lunga lista iniziale – le sconfitte, spesso all’ultima curva, per rendere tutto più doloroso e vagamente romanzesco.
Mou, forse conscio fin da subito che il livello della squadra non gli permetterà di ottenere grandi risultati, si gioca subito la carta del capopopolo, ruolo che gli calza a pennello. I tifosi, reduci da due allenatori privi di grande carisma (Di Francesco e Fonseca) lo seguono senza chiedersi troppo dove stesse andando, e comprando chi e giocando come.
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Con Dybala e Lukaku
Nei due anni e mezzo da stregone giallorosso, il portoghese è riuscito a prendere una mediocre squadra di calcio e trasformarla in un contenitore pieno di cose, alcune bellissime, a cominciare dallo stadio sempre pieno: un amore incondizionato perfino superiore agli anni dello Scudetto del 2001 (dove le contestazioni non mancarono). Sembrava di essere tornati agli anni Ottanta della Roma di Liedholm, dove l’Olimpico traboccava, anche perché calcio alla tv non ce n’era. Solo che il calcio, se lo intendiamo come gioco, con Mou era sparito dal campo.
Le idee passate attraverso il setaccio di Guardiola, Klopp e degli altri innovatori del gioco sembrano non aver contagiato Mourinho, che si affida invece a un calcio sciamanico, esoterico, in cui la palla non deve entrare nella tua porta solo perché si è deciso che non deve entrare. A volte è pure successo, come nella doppia semifinale dello scorso anno contro il Bayer Leverkusen, quando bastarono un gol di Bove e una dose spropositata di pensiero magico per passare il turno.
Certo, c’era anche il sudore di giocatori che difendevano l’area come una trincea, in un momento storico in cui ci si difende a centrocampo e – talvolta – perfino oltre. In cui gli innovatori trasformano gli attacchi in difese (con il pressing organizzato) e le difese in qualcos’altro, con i centrocampisti arretrati, i falsi terzini, le ali abbassate. Mourinho, un po’ come Allegri, dà quasi l’idea di aver chiuso gli occhi davanti all’ultimo decennio di partite altrui, pensando che bastasse la sua solo presenza per vincere, visto che fino a quel punto non aveva (quasi) fatto altro.
Vincerà, una coppa minore, la neonata Conference League, amatissima dai tifosi, e che io stesso sono andato a festeggiare sotto al Colosseo dopo il fischio finale, dopo aver cercato (senza successo) i biglietti della finale di Tirana contro il Feyenoord. Quella fu una notte di pura gioia, scaramanzie, corde vocali che cedono e abbracci con amici e sconosciuti: perché minore era la coppa, non la festa né la voglia di godersi, finalmente, un trofeo. Per arrivarci eravamo passati per un altro calvario romanista, la sconfitta per 6-1 contro i semisconosciuti norvegesi del Bodø-Glimt, ai gironi. Ce li siamo ritrovati nei quarti di finale, e abbiamo perso di nuovo, all’andata. Poi al ritorno, all’Olimpico, lo stregone riesce nella magia (grazie anche a una tripletta di Zaniolo, eroe diventato “villain” in pochi mesi) fino all’epilogo felice di Tirana.
L’estate successiva la Roma prende Dybala, rimasto a metà strada tra Juve e Inter e si alza l’asticella, dopo un campionato fallimentare salvato dalla coppetta che – se la vinci, posso assicurarlo – tanto coppetta non è.
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Il bacio alla coppa dopo la vittoria in Conference League
Il campionato resta un’interminabile sequenza di appuntamenti dal dentista, di messaggi mandati agli amici per chiedere se anche a loro sembra che stiano estraendo un molare anziché vedere Cremonese-Roma o Roma-Salernitana. A volte subentrava la noia, perché se c’è un gioco e un partecipante fa di tutto per renderlo un’altra cosa, quel gioco non funziona più, non diverte più. E la Roma di Mourinho faceva proprio questo, provava a smontare le partite, azzerare le occasioni altrui, dimenticandosi spesso di averne per sé, come se il gioco fosse che gli altri devono segnare, ma tu non per forza.
Ogni partita, anche la più abbordabile, aveva sempre il potere quasi perverso di tenerti sempre sulla corda, di non farti mai stare tranquillo. I big match erano quasi sempre un cowboy contro indiani, e avevi l’impressione di non avere le pistole e dover fermare le pallottole altrui con le mani.
Certo, la Roma sapeva, a volte (poche), produrre grandi partite, soprattutto in Europa, dove la parte sciamanica può ancora avere il sopravvento. A mezzogiorno e mezza di una domenica qualunque di campionato nello stadio ammaccato dello Spezia non c’è spazio per le stregonerie, ma la notte...
Così si è arrivati fino alla finale di Budapest contro il Siviglia, giorno in cui il rapporto tra la Roma e Mourinho è finito davvero, ma come nelle coppie si è andati avanti, perché se ti sei amato – anche non essendoti mai capito davvero, ti dai sempre un’altra possibilità. Quella fu una partita strana, in cui il gioco di nervi della Roma ben si adattava a una finale, alla cui tensione la squadra era abituata, giocando sempre in quel modo: fu forse una delle poche partite contro un avversario di livello in cui la Roma di Mourinho meritava davvero di vincere. Di mezzo ci si mise la sfortuna e anche l’arbitro Taylor, che all’84esimo negò un rigore abbastanza netto alla Roma. In caso di gol sarebbe bastato difendersi per altri sei minuti più recupero. E la Roma sembrava la squadra più adatta a farlo. Finì invece ai rigori, con i giocatori giallorossi che sembravano andare uno a uno al patibolo, calciando male o malissimo.
Quel giorno si stavano incrociando due incantesimi: il Siviglia non aveva mai perso una finale di Europa League, Mourinho non aveva mai perso una finale europea. Si spezzò il secondo, e con esso – come in quei film fantasy in cui la rottura di un anello o di uno specchio crea un vortice che inghiotte tutto – anche il rapporto tra Mourinho e la Roma.
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In cerchio prima dei rigori decisivi a Budapest
L’arrivo di Lukaku in estate sembrava poter dare soluzioni, ma no. Si era passati da palla a Dybala (quando c’è, quando non è infortunato) e vediamo che fa, a palla a Lukaku e vediamo che succede. Un po’ poco, al netto dei terzini che non crossano, dei giocatori tecnicamente involuti (Pellegrini), di quelli sempre rotti (Renato Sanches, Aouar) e di quelli che passano la palla a un metro o indietro e pensano di fare i registi (Paredes).
Tanti tifosi romanisti, oggi che Mourinho è diventato il passato, si sentono orfani, perché le partite della Roma flirtavano con una morte sportiva che si prendeva magicamente altri spazi. E non c’è niente che ci faccia sentire più vivi che ballare sul precipizio e poi scoprire di essere rimasti in piedi. Per quanto male andasse, al 90esimo finiva tutto, come nei film. E la domenica dopo potevi ricominciare a illuderti.
Sabato alle 18 ci sarà Roma-Verona, mi siederò sul divano che per una volta dopo quasi tre anni mi sembrerà un divano, non un posto dove cavarmi un dente. Poi magari farà male lo stesso, ma sarà un’altra cosa. Diversa. Cosa non lo so. Ma non è per questo che continuiamo a guardarlo, il calcio?