Basket

‘Kobe bambino rubava la palla anche ai compagni’

Ciccio Grigioni, fresco 81enne, ripercorre la sua grande carriera di agente e dirigente ricordando alcuni noti personaggi con cui ha potuto lavorare

Ha compiuto gli anni il 20 marzo, 81 per la precisione, essendo nato nel 1942 come la Federale Lugano. Lui è Luciano Grigioni, conosciuto nel mondo della pallacanestro come Ciccio. Voce roca, sorriso sornione, sigaretta sempre accesa, dentro e fuori prima delle restrizioni, mentre oggi... quasi sempre fuori.

Ciccio Grigioni è uno di quei personaggi che stanno al basket come la palla a spicchi o il tabellone: non puoi fare a meno di incontrarlo.

Il basket è certo uno degli amori della sua vita, una passione che si è manifestata negli anni sotto le forme più disparate, dato che Ciccio è sempre pronto a dare una mano o a trovarti lo straniero che ti puoi permettere, o che fa al caso tuo. Inoltre, ha una conoscenza a 360 gradi del basket europeo e di quanto si muove ancora oggi nel mercato continentale.

Con lui andiamo all’inizio del suo viaggio, cominciato manco a dirlo sul campo dell’asilo di Molino Nuovo, raggiunto sempre dopo la scuola in bicicletta: «Tifavo per Ferdy Kübler e non per Hugo Koblet, voglio che sia chiaro», esordisce sorridendo.

Il campetto era lo spazio da condividere verso la fine degli anni ’50 con Paparelli, Ferrario, Gino Campana, Seo e Ivano dell’Acqua e altri ancora, sotto gli occhi di Gino Panzeri, che deteneva le chiavi del gabbiotto che fungeva da spogliatoio. Un gruppo di pionieri, come si è rievocato ricordando Seo che ci ha appena lasciato.

Tempi epici con un pallone che, sì, era rotondo, ma con cuciture in bellavista e rimbalzi impropri, tabelloni in legno e terreno in cemento o terra battuta, a dipendenza del campetto.

Dal campo alla scrivania

Giocatore fino a quando? «Qualche annetto, non ero molto portato per quelle fatiche: mi trovavo meglio a gestire, e così sono diventato dirigente». La Coppa Svizzera della Federale del 1958 segna il primo successo, ma non solo. «Bisogna ricordare due giocatori come Pepi Pozzi e Geo Balmelli, i primi ad accasarsi all’estero, a Cantù il primo e a Varese il secondo, poi tornati rispettivamente a Cassarate e alla SAL. Con Seo alla Federale, un trio di giocatori di assoluto livello e col basket che si muoveva verso i primi traguardi nazionali».
Cosa ricordi di quegli anni? «Le doppie trasferte in Svizzera romanda, con partite il sabato pomeriggio e la domenica mattina, la prima a Losanna e poi a Friburgo, tanto per fare un esempio. E le serate del sabato certamente non da sportivi d’élite, ma erano altri tempi».
Il Ticino del basket si allarga, le squadre diventano quattro in un fazzoletto di terra, le rivalità si accendono, con la Federale di Chico Frigerio a fare da apripista e con Ciccio Grigioni quale general manager. «Diciamo che il ruolo era quello, e occorreva avere una certa conoscenza delle nuove prospettive. Avevo cominciato a intavolare un rapporto con Richard Kaner, uno degli agenti americani che si apriva all’Europa.

Con Chico Frigerio e Gino Panzeri preparammo il viaggio a New York per scegliere i due stranieri. Per alcuni motivi non partecipai direttamente, così tornarono con Gary Lawrence, bianco, e Mike Moore, nero, come Chico aveva deciso che fossero i primi due stranieri. Il mio rapporto con Kaner è stato molto importante: io ho partecipato a una decina di Summer League a Los Angeles anche negli anni successivi».


Ti-press
Manuel Raga e Chico Frigerio ai tempi della Federale

Grandi nomi

Dopo i primi due stranieri, un salto in alto in fatto di qualità. «Infatti, con Chico Frigerio e il suo socio Ernesto Parli abbiamo programmato un salto di qualità. Portai Ken Brady dalla Spagna e, grazie ad amici messicani di mia moglie – che erano in contatto con Raga a Varese – convinsi Manuel a prendere la strada della Gerra quando i lombardi optarono per il duo Yelverton - Morse. Colpi eccezionali che arrivarono anche a cifre “estreme”, per quell’epoca e per il Ticino: parliamo di 100’000 franchi, centesimo in più centesimo in meno. E si vinse tutto».
Anni storici, vissuti in prima linea. «Erano tempi di grande impatto sul territorio e nel mio ruolo ho avuto la possibilità di allargare gli orizzonti: poi alcune divergenze ci hanno diviso e ho preso altre strade, grazie alle conoscenze acquisite».

Prima tappa? «Reyer Venezia e un incontro irripetibile, quello con il mito Aza Nikolic, un allenatore ‘impossibile’. C’era solo il basket, dal mattino a notte fonda. In palestra era un mastino, non lasciava spazio a nulla. Tartassava tutti: una posizione, un movimento dovevano essere perfetti. E poi la sera, meglio dire la notte, a casa sua: ore interminabili a parlare di basket con nicotina, whisky e schemi. Ti prosciugava, ma era un genio, una Bibbia vivente».

Chi portasti a Venezia? «Leon Douglas, che è diventato come un fratello, tanto abbiamo viaggiato assieme. Però alcune divergenze tecniche coi dirigenti mi hanno portato alla separazione. Sono andato a Pesaro con Ken Brady, e poi a Strasburgo. L’anno successivo a Limoges, portandomi Leon Douglas e con Dao come coach, vincemmo una Coppa Korac e il campionato: per Douglas strappai un contratto da 100’000 dollari, un record folle a quei tempi».

Un certo Bryant

Di nuovo con la valigia in mano? «Esatto, avevo avuto una proposta interessante da Dao, ma non mi andava di fare il mercante per tutta la Francia. E così presi la strada per Bologna, sponda Fortitudo, squadra rivale della potente Virtus dell’avvocato Gianluigi Porelli. Avevo preso George Bucci, oriundo italo-americano, e sono arrivato davvero a un passo da Dino Meneghin: il giorno prima della firma, il buon Dino mi chiamò e, per le pressioni avute dal patron di Milano – Gabetti – con rammarico mi comunicò la sua rinuncia. Presi Ferracini, ma non era Meneghin.

Il nostro primo obiettivo era vincere i derby, tutto il mondo è paese, e ci riuscimmo più volte. Alla Fortitudo rimasi per 7 anni, e ci passò un anno anche quell’Earl Williams protagonista con Pregassona nella sfida storica di Mezzovico. Una testa ingestibile che per un anno fece ammattire tutti».

E poi a Pistoia con Joe Bryant, padre di Kobe che proprio a Pistoia cominciò a giocare. «Esatto. Bryant padre era un grande giocatore; Kobe era un folletto imprendibile, sempre tra i piedi, una palla in mano, palleggi e tiri in ogni momento libero o nei tempi morti degli allenamenti. Quando giocava, portava via la palla anche ai compagni, una cosa incredibile davvero. Beh, è poi diventato un mito inavvicinabile. Ma già l’anno successivo purtroppo la famiglia Bryant si trasferì a Reggio Emilia».


E Ciccio Grigioni? «Io dovevo andare a Siena, alla Mens Sana, ma con Dado Lombardi non c’era feeling, così decisi di rientrare in Ticino, anche perché mia mamma era in precarie condizioni di salute e dopo tanto vagabondaggio era giusto così».

Il ritorno in Svizzera

Sempre senza abbandonare il basket, però. «Diciamo che per un anno avevo un paio di società che si occupavano dei ‘contratti d’immagine’ dei giocatori stranieri in Italia, una questione burocratica che però non mi dava quanto il campo.

E così mi trovai con Antonini, allora presidente del Lugano, e ricominciai. Nel 2000 prendiamo Zare Markovski, un grande allenatore e in tre anni vinciamo tre campionati e due coppe».
Un Lugano che va in Europa. «Già, le conoscenze giuste aiutano e così riusciamo ad arrivare in Eurolega a scapito del Galatasaray, cosa che fece scalpore. Ma fu un’esperienza molto bella».
Poi situazioni finanziarie molto difficili. «Già, e qui devo dire che la Città di Lugano ha aiutato molto: il sindaco Giudici più volte ci ha dato una mano a uscirne, o perlomeno a terminare la stagione. Lo stesso si può dire di Umberto Giovine e Dany Stauffacher, che hanno salvato il Lugano».
Poi, più a sud. «Giovine e il suo progetto ‘Talento nella vita’ – insieme all’architetto Ostinelli – mi hanno chiesto di unirmi per dare un impulso al Vacallo. Saliti subito in A, dopo aver vinto coppa e campionato, la situazione è crollata e si è chiuso tutto».
Però il progetto di Giovine è continuato e ‘Talento nella vita’ ha trovato altri lidi. «Infatti ci siamo accasati a Neuchâtel con Siviero presidente e, dopo tre anni, siamo andati a Monthey per altri tre anni. Il progetto ‘Talento nella vita’ è un supporto importante per quei giocatori che vogliono trovare un impiego in parallelo all’attività sportiva, garantendosi un futuro. Ma è anche un supporto per le società che credono nell’interazione con psicologi ed educatori nell’ambito dei settori giovanili. Messaggi che non sempre le società recepiscono, a meno che non sia tutto… gratuito».

Il presente

Massagno è l’ultima spiaggia? «E chi lo sa? La scelta di Massagno è maturata dopo una proposta fattami da Gubitosa. Il mio bagaglio di conoscenze a vari livelli è stato ritenuto utile ai bisogni della società. Stiamo lavorando bene, per ora i risultati sono positivi e la dimostrazione è che ci vuole un lavoro programmato su più anni per essere credibile e valido. Non è un messaggio scontato».

Energie infinite? «Non esageriamo, sono uno con i suoi acciacchi legati agli ottant’anni, però mi trovo sempre bene, affronto bene anche il tempo trascorso quasi ogni giorno in palestra, e ho piacere nel vedere una squadra crescere. L’età mi permette di arrabbiarmi meno, ho smorzato anche qualche vena polemica, ma non posso dire che mi tengo tutto dentro: le magagne del nostro basket sono talmente evidenti che il percorso di crescita è lungi dall’essere completato».
Ultimi step: i migliori allenatori e giocatori che hai avuto? «Fra gli allenatori Aza Nikolic, Zare Markovski, Cesare Pancotto, Thibaut Petit e Branko Milisavljevic. Fra i giocatori Leon Douglas, Ken Brady, Manuel Raga, Louis Dumbar, Charlie Yelverton e John Fultz. E ci aggiungo Dan Stockalper e Harold Mrazek, due super svizzeri».

Quanto bello sia il viaggio nei ricordi lo si evince dalla gioia nel raccontare: il bello e il brutto si assommano, ma il basket, come altri sport, è un’infinita sequela di storie che non si finisce mai di ascoltare.
Ciao Ciccio, alla prossima.