Di ritorno in Svizzera per qualche giorno, lo storico ex coach di Ambrì e Lugano lancia la sfida di giovedì. ‘È il dopo che conta, prima son buoni tutti’
Se c’è qualcuno che può dire di sapere cosa significhi vivere un derby dalla panchina, questi è senz’altro Larry Huras. Lui che nel nostro Paese ha allenato un po’ dappertutto, collezionando pure tre titoli a Lugano, Zurigo e Berna, delle diciannove stagioni vissute in Svizzera la maggioranza le ha passate a Sud delle Alpi: cinque in Leventina, sei sulle rive del Ceresio, mese più, mese meno, tra il 1994 e il 2017. «Così poche? Dev’essere che gli anni trascorsi a Lugano mi sono sembrati più lunghi» dice, ridendo, il sessantottenne tecnico dell’Ontario, dimostrando di non aver perso il suo senso dell’umorismo.
Di ritorno in Europa per qualche giorno, invitato a Berna da Philippe Furrer per il ‘Match delle leggende’ di domenica scorsa, culminato con il ritiro della maglia dell’ex difensore degli Orsi (e, tra gli altri, pure del Lugano), dev’essere che a Larry il nostro hockey manca e parecchio, tanto che non ha alcuna esitazione nel rispondere a chi gli chiede cosa preferirebbe seguire alla tv tra una partita del campionato svizzero e una della Nhl. «Ah, non c’è dubbio, di sicuro sceglierei una sfida di National League, è molto più interessante – dice –. Cominciamo col dire che in Nhl ci sono i migliori giocatori del mondo, che sono più veloci, più grossi e più tecnici, quindi fanno meno errori. Tuttavia, è soltanto grazie agli errori che in pista succedono delle cose, e per me il problema è che quando osservo un match Nhl riesco a immaginare con due secondi di anticipo cosa capiterà. Ciò, almeno, vale per la maggioranza delle situazioni: naturalmente, se il puck ce l’hanno Auston Matthews o Sidney Crosby puoi star sicuro che inventeranno qualcosa che ti lascerà di stucco, ma la maggior parte degli altri giocatori, che sono i tre quarti della Lega, direi, sono tutti programmati per giocare in un certo modo. Non sto dicendo che in Svizzera non ci sia la qualità, perché è innegabile che si tratta di un campionato eccellente in cui ci sono dei buoni giocatori, infatti ogni tanto le partite le guardo, però è sicuro che ci sia meno omogeneità nel modo di allenare, inteso come fare coaching, e pure a livello di stile.
Oh là là... L’altra sera ero negli studi di MySports per assistere al match Bienne-Lugano e quante ne ho visti, da una parte e dall’altra... Però almeno c’era qualcosa da raccontare: un sacco di gol, di occasioni, di azioni da analizzare. Però immagino che gli allenatori di entrambe le squadre alla fine della partita avranno rivisto qualche immagine e si saranno detti: “Ma cos’è sta cosa?”. E dopo un primo tempo in cui quella bianconera era la squadra migliore, e di gran lunga, la partita si è completamente capovolta, con il Bienne che nel primo tempo non è esistito, e man mano i padroni di casa crescevano, il Lugano cadeva nelle brutte abitudini, tra dischi persi e penalità regalate stupidamente.
Certo che sì! – dice, senza esitazione –. Sarà anche un turno preliminare, e li chiameranno anche play-in, ma d’ora in poi l’atmosfera sarà quella dei playoff.
Allora, però, era tutto diverso. Ai primi derby, intendo dire quelli che ho vissuto io al mio arrivo ad Ambrì, in squadra c’erano più giocatori ticinesi rispetto a quanti ce ne fossero nel Lugano, di conseguenza credo che quelle sfide da noi fossero più sentite. Attenzione, però: non mi riferisco agli spettatori, parlo soltanto dei giocatori. E dei coach ovviamente, i quali (ride, ndr) dovevano tuttavia essere degli stupidi, per non rendersi conto di cosa ci fosse in palio. Lo si capiva subito quanto quel match fosse importante per i ragazzi cresciuti con quella rivalità, mentre gli altri, che arrivavano da fuori, sapevano bene cosa si intendesse con il termine derby, del resto ne avranno giocati a loro volta nei Paesi da dove provenivano, ma immagino che non fossero la stessa cosa.
Alle emozioni. Quelle sono, le sfide Ambrì-Lugano. E non sono mai le stesse: un derby d’inizio stagione è una cosa, uno a gennaio un’altra e quelli dei playoff, beh...
Deve fare in modo di gestire quelle emozioni, per far sì che la squadra riesca a rimanere mentalmente lucida dopo l’ingaggio d’apertura di gara 1. Son capaci tutti a preparare mentalmente una squadra prima che cominci una serie di playoff: è solo dopo che viene il difficile, bisogna saper governare le emozioni. In pista, ma non solo. E lo si deve saper fare anche tra un match e l’altro. Sia nel caso in cui la tua squadra abbia vinto la prima sfida, sia che l’abbia persa, ciò che naturalmente fa salire la tensione. ‘Stay in the moment’, si dice in inglese: chissenefrega cosa è successo prima o cosa capiterà dopo, bisogna soltanto vivere il momento, e stop. Altrimenti può succedere di lasciarsi travolgere dagli eventi, ed è ciò che bisogna assolutamente evitare.
No, non per forza. Ricordo bene cosa accadde nel 2006, quando venni allontanato dopo che perdemmo gara 2 dei quarti con l’Ambrì. Quello fu un buon esempio di ciò che dicevo, perché – appunto – i dirigenti del Lugano non furono in grado di gestire le emozioni (ride, ndr). Noi, invece, come squadra avevamo digerito bene le due sconfitte, e dopo quelle due i ragazzi ne persero pure una terza, poi però riuscirono a vincerne quattro di fila. A quel punto io nello spogliatoio non c’ero più, ma posso benissimo immaginarmi cosa sia successo: era un gruppo di professionisti ed era ben preparato. Ormai è acqua passata, ma questa storia ben dimostra come durante una serie di playoff tutto possa cambiare all’improvviso: in qualsiasi momento di una qualunque partita potrebbe bastare un nulla per ribaltare una tendenza. E quando ciò succede, gli avversari hanno solo un modo per riparare, ovvero dar fondo alle loro risorse per capovolgere nuovamente la situazione. È l’unico segreto per vincere una serie.
Moltissimo. I cosiddetti veterani hanno un ruolo oserei dire essenziale nei playoff, quando si presentano i momenti di panico. Infatti i giocatori occupano lo spogliatoio in permanenza, mentre gli allenatori quando passano ci rimangono sì e no per cinque minuti, e dopo che se ne vanno devono essere gli elementi con più esperienza a prendere in mano le cose. Ad esempio, se questo o quel giocatore se ne esce con un ‘ok, il coach ha detto così, ma io credo che se dopo facessimo in quel modo...’, il ruolo del leader è fargli capire che non è così che funziona, e che se vogliamo avere successo dobbiamo fare ciascuno quello che i coach ci chiedono di fare. Punto.
D’accordo, ma parliamo pur sempre di sole quattro partite, e onestamente io non me ne ricordo. Ma è senz’altro qualcosa di positivo (ride, ndr), perché se ne avesse combinata una davvero grossa, me ne ricorderei.
No, sinceramente no. Ma a quei tempi Luca aveva appena sedici anni, ed è di quel Cereda che io ho ricordo, quindi è solo di quei tempi di cui posso parlare. Lui poi se n’era andato e aveva maturato esperienza in Nordamerica e poi anche qui in Svizzera, al suo ritorno, formandosi prima come giocatore e poi creandosi la sua propria visione del gioco. L’unica cosa che posso dire io è che Luca a sedici anni era un fenomeno, ed era talmente bravo che dopo la preparazione estiva da un momento all’altro era arrivato in prima squadra, dove ha saputo guadagnarsi subito il posto. Poi, l’anno dopo le cose andarono un po’ meno bene, del resto era successo un po’ tutto così in fretta, tanto da arrivare a giocare all’età di sedici anni a fianco di uno come Oleg Petrov, e direi che nel frattempo avesse un po’ perso l’orientamento sul piano della formazione, oltre alla sua posizione nel lineup. Sicuramente a lui non sarà piaciuto, ma sono convinto che gli avrà fatto bene pensando alla strada che ha fatto dopo. Sapete, il ruolo di un allenatore non è quello di favorire questo o quel giocatore: il mio compito è unicamente quello giudicare chi merita più spazio sul ghiaccio rispetto agli altri, tutto lì.
Esattamente. Io lo dico subito appena metto piede in uno spogliatoio: “Ragazzi, qui ogni giorno è una competizione”, in maniera da mettere subito le cose in chiaro. E quando dico ogni giorno intendo ogni giorno, non soltanto quando ci sono delle partite. Conta non soltanto come giochi, ma anche il modo in cui ti alleni, oppure come ti prepari agli incontri e poi anche come ti comporti. Ricordo ancora il giorno in cui dissi a Ryan Gardner che per un periodo sarebbe stato meglio se fosse andato a giocare in Lega nazionale B. Era in lacrime, ma quella per lui fu una buona lezione. Sono magari dei momenti difficili, ma hanno uno scopo ed è quello di esserti utili per crescere e io sono convinto che non puoi riuscire a formare un buon giocatore se gli dai tutto gratis.