La formula su cui paiono concordare i fautori di un’intesa di governo tra 5Stelle e Pd non è nuova e ha certamente fondamento, ma manca di un elemento decisivo
Per situazioni eccezionali, decisioni eccezionali. La formula su cui paiono concordare i fautori di un’intesa di governo tra 5Stelle e Pd non è nuova e ha certamente fondamento, ma manca di un elemento decisivo: eccezionali dovrebbero essere anche le persone responsabili di agire adeguatamente alla gravità del caso. I nomi che si intestano questo “nobile e disinteressato” tentativo non lo sono.
E il discorso potrebbe finire qui, ma non si può, perché l’alternativa delle elezioni – politicamente legittima quanto una nuova maggioranza parlamentare lo sarebbe costituzionalmente – è a sua volta un passo nel buio: non tanto per il possibile, sciagurato esito di un voto anticipato, ma perché la volontà di arrivarvi è di una parte comunque minoritaria del Parlamento e per proprio esclusivo tornaconto.
Sergio Mattarella se lo sarà certamente detto, nelle ore trascorse ad ascoltare le delegazioni parlamentari, alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi di governo determinata dalla forzatura cercata da Matteo Salvini e dalle dimissioni di Giuseppe Conte che ne sono conseguite. Perché, con sconcertante chiarezza, quella in corso in Italia non è una crisi di governo in senso stretto, ma è un disastro politico che potrebbe anche diventare di sistema.
I giorni concessi ai partiti dal presidente della Repubblica prima di dare luogo (martedì) a nuove consultazioni, non devono essere intesi come un’apertura di credito alle mediocri figure che si sono succedute nel suo studio introducendovi sconsideratezza e incapacità, ma solo come sconsolato rispetto del dettato costituzionale. Trascorso questo nuovo margine di tempo – Mattarella è stato chiaro – e in mancanza di impegni attendibili di prosecuzione della legislatura con una (nuova?) maggioranza di governo, il ricorso alle urne sarà inevitabile.
È chiaro che il presidente si rivolgeva a 5Stelle e Pd, i soli ad avergli confermato la volontà di concordare un programma di legislatura, ed essendo priva di credibilità la rinnovata cosiddetta “apertura” di Salvini ai grillini.
Vale cioè l’ipotesi evocata sopra: una intesa, dettata da uno stato d’eccezione, tra due forze che sino a ieri si professavano incompatibili. Un problema colossale e apparentemente insolubile. Costa fatica immaginare un comune progetto di governo tra un movimento che ha rivendicato sin dalla nascita l’alterità a un “sistema” di cui, ai suoi occhi, il Pd era l’asse portante. Tra un insieme confuso di debuttanti agli ordini di un comico ed un presunto guru dell’informatica (la stessa sudditanza psicologica di cui ha goduto Salvini), e un partito che non ha ancora condotto a termine la propria dissoluzione.
In questo senso, benché dispiaccia, bisogna dare ragione all’ex ministro dell’Interno quando afferma che il solo collante dell’eventuale nuova maggioranza sarebbe l’antisalvinismo (urgente e necessario, peraltro).
Non è neppure detto che vi si arrivi, d’altra parte. La necessità di salvare la faccia, così urgente in Di Maio e i suoi pari, imporrà ai grillini di porre “condizioni” su cui il negoziato potrebbe esaurirsi. Mentre un Pd lacerato come d’uso potrebbe inciampare nell’abito di salvatore della patria che Renzi gli ha imposto. E sarebbe proprio il Pd (perso quel poco di vantaggio propagandistico che dà lo stare all’opposizione) a pagare lo scotto maggiore se, fallito l’esperimento, si convocassero le elezioni anticipate.
Liberarsi di Salvini è necessario. Come, fa la differenza.