Anche il finto fair play di Salvini non può mascherare la realtà: da quando condividono il governo, i rapporti di forza tra Lega e 5Stelle si sono rovesciati
Matteo Salvini ha salutato la vittoria del proprio candidato Christian Solinas alle regionali sarde leggendola come un nuovo cappotto inflitto al Pd. Non era il caso di infierire su quei poveretti dei 5Stelle, c’è pur una maggioranza, a Roma, da tenere in piedi. Ma anche il finto fair play di Salvini non può mascherare la realtà: da quando condividono il governo, i rapporti di forza tra Lega e 5Stelle si sono rovesciati rispetto al risultato elettorale del 4 marzo 2018. Non tanto numericamente, ma politicamente. Quello che, con un diciassette e poco più per cento di voti doveva essere il socio di minoranza della coalizione, ne è diventato il titolare indiscusso. E tutte le successive elezioni locali lo hanno confermato. Fino a quelle in Sardegna, appunto.
Complice il ripiegamento sul pensiero dell’estrema destra di gran parte della società italiana, la capacità di Salvini di imporsi nello spazio pubblico si è dimostrata più efficace delle fanatsticherie algoritmiche con cui la Casaleggio e Associati plasma l’immaginario dei 5Stelle. Una capacità che ormai fa premio sulle peculiarità locali, imponendosi come marchio di sicuro successo. E se la buonanima di Emilio Lussu si sarà rivoltata nella tomba vedendo un esponente del Partito sardo d’Azione associarsi al discorso fascioleghista egemone (e venirne premiato dal voto), anche questa è una conferma di quanto detto sopra.
Che però il tracollo dei 5Stelle vada a tutto vantaggio di Salvini è da dimostrare. Lo stress generato nei grillini da una serie di risultati disastrosi non può che trasmettersi al governo. Sinora, la tenuta dell’esecutivo è stata assicurata (oltre che da una spartizione spudorata di cariche istituzionali e nelle aziende pubbliche, Rai per prima) da compromessi oggettivamente fragili: dal reddito di cittadinanza, al decreto sicurezza, alla quota 100 per le pensioni, alla Tav, all’impunità per Salvini, in attesa della legge sulla legittima difesa, delle autonomie per le regioni ricche del nord, il tutto nella cornice di una politica indecente sull’immigrazione. Ma proprio per la natura inafferrabile, bislacca, extracorporea, della galassia grillina, o più prosaicamente per i regolamenti di conti intestini che non tarderanno a consumarsi, non si può escludere nulla. Se Grillo riusciva a pubblicizzare gli yogurt senza aprire bocca, vuoi che non li convinca a piantare tutto e tornare ai prati verdi dell’innocenza?
È pur vero che il potere è un collante formidabile (come ricorda chi pronostica una lunga vita del governo), ma solo finché lo si detiene. Vale per i Maio, vale per Salvini. Soprattutto per Salvini. Proprio la sua posizione gli imporrà a breve di risolvere l’ambiguità di cui sinora si è giovato; al più tardi alle elezioni europee, quando i grillini gli saranno avversari, Berlusconi non più (finto) alleato, e la Lega dovrà misurarsi sola contro tutti senza poter affermarsi col voto altrui.
Che fare dunque di una eventuale vittoria in Europa, se la conseguenza dovesse essere la fine della maggioranza a Roma? Salvini dovrebbe dare il meglio di sé (vale dire il peggio) per trarne comunque vantaggio. Dalla sua ha un’Italia spaesata e incattivita, un paesaggio europeo di rabbia e dinsincanto. E soprattutto lo avvantaggia il deserto lasciato a sinistra dalla scomparsa della sinistra. Se il Pd, invece di autoimmolarsi nel rito risibile delle primarie, coltivasse gli Zedda che pure non mancano “sul continente” (come si dice in Sardegna), il passo dell’oca di Salvini un po’ di slancio lo perderebbe. Ma non è per oggi.