Si è evitato il peggio, ma le conseguenze dell’uscita dall'Unione europea saranno in ogni caso negative. Eppure i sovranisti cantano vittoria
Se l’accordo sulla Brexit è una vittoria, come blatera Boris Johnson sotto l’alberello delle feste, allora viene da chiedersi cosa sia una sconfitta. I cittadini del Regno Unito possono aspettarsi una significativa riduzione del Pil per i prossimi anni, già grami di loro; costi burocratici esorbitanti per le aziende; la fine della libera circolazione; la totale esclusione dal processo decisionale di quel continente che della Gran Bretagna è il primo fornitore e mercato. Sono scontenti perfino i pescatori per i quali BoJo si è battuto come un nostromo. Certo, gli è andata ancora bene che l’Unione europea non abbia mirato al No deal: bruciare trecentomila posti di lavoro in una sera sarebbe stata una bella vendetta, lì per lì; ma le trincee di due guerre, Versailles e la pace punitiva hanno insegnato ai ‘continentali’ che non sempre imporre al prossimo il peggio in assoluto è davvero auspicabile. Resta il fatto che Londra si allontana da Bruxelles con un pugno di mosche e con nulla, ma proprio nulla di quella riaffermata sovranità che ha issato a feticcio (che poi la sovranità, come ha notato sportivamente la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, è semmai “poter lavorare, viaggiare, studiare e fare affari senza ostacoli in 27 paesi. E in tempi di crisi è sorreggersi l’un l’altro, invece di provare a rialzarsi da soli”). BoJo e i suoi sconsiderati sodali dovranno d’ora in poi accettare di governare un paese satellite, con quel che ne consegue. A meno che non pensino davvero di rinfocolare la ‘relazione speciale’ con gli Stati Uniti, una barzelletta buona a star larghi per farsi due risate alla caffetteria del Dipartimento di Stato, alla faccia dei vecchi Red Coats.
La sconfitta ai punti salva il naso del biondo etoniano dal Ko; ma sconfitta resta, com’era inevitabile che fosse. D’altronde capita così, quando si abbocca a millantatori cresciuti nel più crasso privilegio. Perché una cosa rende il populismo britannico perfino più urticante di altre varianti: il fatto che ad avanguardia del proletariato si erga la crema di un mondo a compartimenti stagni, gente che puzza di sigari da cinquanta sterline e whisky di cinquant’anni fa. La mobilità sociale inglese, vecchia favola del Blairismo da ‘Cool Britannia’, non è mai esistita: suo patetico surrogato sono i figli di papà à la BoJo e à la Jacob Rees-Mogg, gente che all’inflessione Cockney dei dock londinesi preferisce il greco antico, ma è stata bravissima a turlupinare il ‘white van man’, il piccolo artigiano del Dorset che si sente minacciato dall’altrettanto leggendario idraulico polacco.
Ora anche i Brexiteer nostrani cercano di riscrivere questa imbarazzante disfatta come se si trattasse d’una vittoria. Sui social network questi mini-Johnson – senza neanche il buon gusto d’una cravatta di Savile Row – sono già al lavoro, sperano che anche i loro sostenitori abbocchino alla favoletta del trionfo sovranista. E questo nonostante si sia trattato, come scrive Martin Kettle sul ‘Guardian’, del primo accordo commerciale al mondo che serve ad allontanare le persone, invece che ad avvicinarle. Ognuno ha i suoi pifferai.