Commento

Il ‘delitto’ di essere oziosi o dissoluti

In 60mila rinchiusi senza processo e senza aver commesso nessun crimine. Quando la Svizzera calpestava i più deboli

La cerimonia commemorativa per le vittime di misure coercitive a Bellinzona
3 settembre 2019
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‘La forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri’. Queste sagge parole sono scritte nel preambolo della nostra Costituzione federale, ma la Svizzera non sempre ha saputo rispettarle.

Fino al 1981 le autorità elvetiche hanno rinchiuso senza processo, e senza aver commesso alcun delitto, almeno 60’000 persone in 648 istituti. Le vittime erano proprio loro, i più deboli, persone ai margini della società, cittadini di serie B. Era sufficiente essere considerati «oziosi» o «dissoluti» per venire rinchiusi per anni in un istituto. Succedeva anche in Ticino. Essere oziosi era un ‘delitto’.

Nel 2014 il Parlamento ha riconosciuto i torti inflitti a queste persone e ha commissionato un’analisi storica durata 4 anni, che ha impegnato 40 ricercatori. Ieri a Berna sono stati presentati i risultati (in dieci volumi) e la Commissione responsabile ha invitato il governo federale a fare di più per chi ha subito queste ingiustizie.

Come versare alle vittime ulteriori prestazioni finanziarie, oltre al fondo di aiuto immediato e ai contributi di solidarietà già devoluti. Molte vittime di allora vivono ancora oggi in condizioni economiche e di salute precarie a causa delle pessime condizioni di vita e dei terribili traumi patiti.

In due parole, vite spezzate e rubate con la complicità dello Stato. Sofferenze passate di generazione in generazione. Gli storici ci raccontano di madri sole obbligate ad abortire o sterilizzate, perché giudicate delle ‘scostumate’, colpevoli di una condotta amorale come un figlio fuori dal matrimonio. Ma anche tanti uomini internati perché giudicati ‘scansafatiche e ubriaconi’, incapaci di tenersi un lavoro e mantenere la famiglia.

Insomma, chi deviava dalla morale borghese e cattolica del tempo veniva rinchiuso e rieducato a una vita ordinata attraverso il lavoro forzato. Erano considerati una sorta di minaccia per l’ordine pubblico, andavano allontanati e ‘resettati’. Ovviamente l’esercizio non funzionava, perché quando uscivano dalle strutture questi poveracci erano ancora più emarginati, arrabbiati e sofferenti. Non trovavano lavoro e dopo poco venivano di nuovo rinchiusi.

Erano in balia dei responsabili degli istituti in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Sebbene non avessero commesso alcun reato, in molti cantoni venivano imprigionati insieme a chi li aveva commessi. Gli storici hanno dimostrato varie forme di abuso di potere negli istituti, che vanno da abusi sessuali a punizioni simili alla tortura.

Non è andata meglio ai figli degli oltre 60’000 internati… i bambini venivano piazzati a forza in istituti dove molti sono stati maltrattati e abusati. L’unica loro colpa era essere ‘illegittimi’, orfani, figli di donne sole, povere o di etnia nomade. Sulle pagine di questo giornale abbiamo raccontato tante loro storie.

Dopo anni di rimozione collettiva, la Confederazione ha messo il naso in questo doloroso capitolo della storia elvetica, che è stato (finalmente !) inserito nei manuali di storia delle scuole. Un tabù sociale faticosamente tornato a galla che ora la Svizzera sta iniziando a ‘digerire’.

Gli esperti dicono che siamo all’inizio. Doveroso è aiutare le vittime ancora in vita, ma anche non dimenticare e vigilare. La nostra società ha tollerato tali orrori una volta. Mentre i più deboli venivano calpestati e umiliati, gli altri hanno girato lo sguardo altrove. Avere un luogo di scambio e di ricordo – come la ‘Casa dell’altra Svizzera’, proposta dalla Commissione – aiuterà forse a sviluppare gli anticorpi al pericoloso virus dell’indifferenza verso i più deboli.