Bellinzona: Misure coercitive e violenze; pubblicato da Matteo Beltrami il primo libro in Svizzera scritto da un figlio di una delle vittime
«Come ho fatto a sopravvivere? Mi affacciavo alla finestra, respiravo gli odori e capivo che fuori c’era dell’altro e una vita ad attendermi». È la testimonianza di un bambino ferito, oggi uomo 73enne, raccontata decenni dopo di fronte allo sportello cantonale del Servizio per l’aiuto alle vittime di reati, creato per raccogliere le deposizioni di chi era stato collocato prima della fine degli anni Settanta tramite la Legge sulle misure coercitive. Questa storia, e indirettamente quella di tanti altri bambini cui è toccata la stessa sorte, è narrata nel libro “Il mio nome era 125” (edizioni Ulivo), pubblicato negli scorsi giorni. L’autore Matteo Beltrami queste vicende le conosce bene: «Storie che sono dentro di me», poiché udite fin da quando era bambino. Suo padre è infatti una delle vittime delle misure coercitive; dal 1954 (quando aveva sei anni) al 1959 fu collocato all’Istituto von Mentlen di Bellinzona.
In Svizzera è il primo libro scritto da un figlio di una delle vittime delle misure coercitive. «Non è stato evidente, ma dopo tanti anni mi sono sentito di dover restituire qualcosa a mio papà e agli altri che hanno subìto la stessa sorte», spiega l’autore. Durante il periodo di internamento il bambino subisce ogni tipo di abuso. Il romanzo storico tratta di un tema drammatico, racconta di ciò che accadeva fra quelle mura, ma la chiave di lettura che l’autore ha voluto dargli è legata alla magia dell’infanzia, alla sopravvivenza e alla resilienza. «Vedere mio padre raccontare quelle vicende che già conoscevo, ma per la prima volta in maniera ufficiale, mi ha toccato molto. Soprattutto perché ho visto che il bambino ferito era ancora molto vivo dentro di lui», rileva Beltrami. Il padre dell’autore è stato il primo a leggere il romanzo: «È rimasto molto colpito, penso quindi che il tentativo di rielaborazione sia riuscito». Ma perché nel suo caso si era reso necessario il collocamento? Beltrami racconta che la mamma di suo padre era rimasta sola ed era dunque considerata una ‘ragazza madre’: in quel frangente storico veniva quindi delegittimata dal suo ruolo materno. I figli venivano considerati illegittimi e tacciati con appellativi anche pesanti, come ‘figli di nessuno’. Per il protagonista del libro, ma anche per tanti altri, entrare nell’istituto è stato come entrare in una zona d’ombra. «E in questa zona d’ombra all’epoca c’erano istitutrici suore che avevano una visione educativa in linea col pensiero del tempo». C’era molta violenza e sono stati messi in atto abusi di diverso tipo.
Ciò che accadeva tra quelle mura è che le famiglie venivano divise; non solo fisicamente, ma venivano proprio recisi i legami. I bambini venivano continuamente presi di mira, sia con violenza fisica che con discorsi molto avvilenti. Le suore dicevano loro che erano dei ‘bastardi’ e che i genitori non c’erano più, che ora erano figli dello Stato e non meritavano di nascere. In pratica venivano annientati da un punto di vista identitario. E questo, in un’età così delicata, ha arrecato danni pesanti: spesso, quando i genitori o i parenti tornavano al von Mentlen a rendere visita ai figli, i legami famigliari erano compromessi. «Mio papà quando è uscito non si sentiva nessuno, non sapeva chi fosse. Quando era dentro diceva di non potersi esprimere, di avere paura di ogni movimento e si sentiva abbandonato». Una volta fuori dall’istituto, nell’adolescenza e fino ai 20 anni, è stato frate: era un ambiente che lo rassicurava e che gli ha dato speranza. Per molti di questi ragazzi che non avevano conosciuto i loro genitori, avere figli è stata una sfida molto grande perché non avevano esempi di riferimento. L’epoca delle misure coercitive ha avuto quindi ripercussioni a livello transgenerazionale, perché ha implicato uno stravolgimento degli equilibri all’interno delle famiglie che queste persone hanno avuto in seguito.
«Oggi il von Mentlen è un ente molto importante per quanto riguarda i collocamenti nel Cantone; lavora in modo efficiente e dà il massimo con le risorse a disposizione», osserva Beltrami. Dall’istituto questo libro è stato accolto in maniera molto umana e costruttiva. L’autore ha incontrato tutto il team di educatori e ha parlato del libro che è stato accolto con positività e con partecipazione. «Loro stessi ci tengono a sottolineare la distanza da quelle epoche», spiega. Il libro verrà presentato al pubblico nei prossimi giorni e la prima tappa è stata proprio l’Istituto von Mentlen. Nel libro – che è la prima opera di Beltrami, di professione educatore di Scuola media – sono presenti le prefazioni di Sergio Devecchi (principale promotore della tematica a livello nazionale), Vanessa Bignasca (storica e ricercatrice) e Vito Lo Russo (direttore del von Mentlen).
Il fenomeno dei collocamenti extrafamigliari dei minorenni, diffuso in passato anche in Ticino, faceva parte delle misure prese contro la volontà dell’individuo e giustificate allo scopo di assisterlo. Per la storica e ricercatrice Vanessa Bignasca, il libro di Matteo Beltrami permette di avvicinarci alla vita quotidiana e alle emozioni che hanno provato le decine di migliaia di bambini che, nel Ticino come in Svizzera, sono stati coinvolti da queste misure. In quelle strutture i bambini venivano sottoposti a severe punizioni disciplinari, che all’epoca erano una costante. Nel libro si solleva anche il tema del trattamento destinato alle donne non sposate che restavano incinte e desideravano crescere da sole i figli. «All’epoca della narrazione, gli anni 50, una gravidanza ‘illegittima’ era oggetto di riprovazione da parte di una società intrisa da valori borghesi e da una morale religiosa», fa presente la storica. Il principio dell’‘illegittimità’ non era soltanto il frutto di una concezione morale, «ma era iscritto nel Codice civile svizzero del 1907, che attribuiva alle autorità di tutela il compito di seguire i casi di ‘gravidanze illegittime’ e di nominare una figura maschile quale tutore», rileva. Il concetto, spiega la storica, fu abbandonato soltanto con la riforma del Codice nel 1976, quando fu parallelamente istituita la possibilità di assegnare l’autorità parentale alla madre non sposata. Aperto nel 1911 come orfanotrofio, il von Mentlen era un istituto privato diretto da una congregazione religiosa e ospitava negli anni 50 centinaia di bambini separati a seconda del sesso nelle diverse ali e alloggiati in grandi dormitori. L’istituto era gestito da personale religioso, in particolare da suore senza alcuna formazione pedagogica specifica. Un’indagine condotta nel 2015 ha permesso di recensire 40 istituti simili che erano attivi in quegli anni in tutto il Ticino e dove venivano collocati neonati, bambini e adolescenti. La maggior parte erano privati e gestiti da congregazioni religiose. L’intervento dello Stato nel finanziamento e nella sorveglianza delle strutture era praticamente nullo. Come dimostrano testimonianze e ricerche, tali istituti erano accomunati da un severo regime disciplinare, imposto tramite l’intimidazione e punizioni corporali molto dure.