Commento

Bevitori, oziosi e scostumate rinchiusi per essere rieducati

Un tabù da elaborare. Così mamma Elvetia ha ‘tradito’ tanti suoi figli: fino al 1981 chi deviava dalla morale borghese e cattolica veniva ‘resettato’

La mostra itinerante nelle città svizzere sugli internamenti amministrativi, sarà a Bellinzona dal 16 al 22 aprile
11 aprile 2019
|

Bastava che qualcuno cambiasse lavoro di frequente o che una donna nubile restasse incinta per venire rinchiusi in istituti, riformatori, manicomi o carceri, senza aver commesso alcun reato e senza una decisione giudiziaria.

A migliaia hanno subito queste terribili ingiustizie fino al 1981 in Svizzera (Ticino compreso). I ricercatori oggi ci raccontano di madri sole obbligate ad abortire o sterilizzate, perché giudicate delle ‘scostumate’, colpevoli di una condotta amorale come un figlio fuori dal matrimonio. Ma anche tanti uomini internati perché giudicati scansafatiche e ubriaconi, incapaci di tenersi un lavoro e mantenere la famiglia.

Insomma chi deviava dalla morale borghese e cattolica del tempo veniva rinchiuso e rieducato a una vita ordinata attraverso il lavoro forzato. Erano considerati una minaccia per l'ordine pubblico, andavano allontanati e ‘resettati’. Ovviamente l’esercizio non funzionava, perché quando uscivano dalle strutture questi poveracci erano ancora più emarginati, arrabbiati e sofferenti. Non trovavano lavoro e dopo poco venivano di nuovo rinchiusi. I loro figli, se ne avevano, venivano piazzati a forza in istituti dove molti sono stati maltrattati e abusati. L’unica colpa dei bimbi era essere ‘illegittimi’, orfani, figli di donne sole, povere o di etnia nomade.

Succedeva anche in Ticino, a testimonianza varie storie, come quella di Sergio Devecchi figlio illegittimo nato a Lugano e internato in vari istituti religiosi, dove ha subito abusi e umiliazioni. L’uomo, ancora oggi, si chiede perché le autorità di Lugano l’abbiano strappato a sua madre: lui che una madre l’aveva. La sua storia è ora diventata un libro.

Sempre su ‘laRegione’, la signora Elisabetta M. ricordava quando, da adolescente, è stata sterilizzata, a sua insaputa, nell’istituto a Bombinasco, dove trascorreva l’estate con un centinaio di altri nomadi. A questa donna lo Stato ha tolto il diritto alla maternità, perché era jenisch: la sua unica colpa era avere un padre nomade della Valle Onsernone.

Queste sono due tra centinaia di infanzie rubate: bambini ‘violati’ da chi doveva proteggerli. E tanti adulti internati perché considerati moralmente pericolosi, come spieghiamo alle pagine 2 e dell’edizione odierna.

Dopo anni di rimozione collettiva, la Confederazione ha messo il naso in questo doloroso capitolo della storia elvetica, disponendo una squadra di storici al lavoro per spiegare come mai sia potuto succedere tutto ciò. Hanno raccolto o ricostruito le storie di tante vittime, spulciato le disposizioni legislative sugli internamenti, analizzato le decisioni negli istituti, dove il potere dei direttori era immenso. Il lavoro dei ricercatori è condensato in dieci volumi che sono in fase di pubblicazione. Un capitolo parla delle centinaia di adulti, uno a settimana circa, internati nella casa per intemperanti La Valletta, situata nel comprensorio della Clinica psichiatrica cantonale a Mendrisio.

Un volto scomodo di mamma Elvezia che finirà nei libri di storia, in Ticino è già stato aggiornato il manuale delle medie.

Un anno fa, nella sala del Gran Consiglio di Bellinzona, quei bimbi di ieri, oggi pensionati, hanno ricevuto le scuse ufficiali del presidente del governo Manuele Bertoli. Una consolazione che non curerà le loro ferite, ma ha ridato dignità a tanti ‘figli di nessuno’. Il riconoscimento di quanto è accaduto è un primo passo per la loro riabilitazione. Un tabù sociale faticosamente tornato a galla che ora la Svizzera sta ‘digerendo’.