Un femminicidio ogni due settimane: questi sono i dati attuali in Svizzera e rappresentano solo la punta dell’iceberg. Le violenze sessiste e sessuali vanno ben oltre. Sono una costante nella vita delle minoranze di genere, manifestandosi in molte forme. Alcune sono più sottili e nascoste, come le battute sessiste, la perpetuazione di stereotipi o l’imposizione di ruoli definiti “tradizionali” per le donne. Altre, invece, sono più esplicite, come il catcalling, le minacce e lo stalking. Continuando lungo questa scala, si arriva poi alle molestie sessuali, alle violenze psicologiche e agli stupri, spesso commessi da persone vicine alla vittima.
A questo punto, una domanda potrebbe sorgere spontanea: “Cosa collega una battuta da spogliatoio a questi tipi di violenza?”. Nella cultura patriarcale in cui viviamo, cresciamo con l’idea delle donne* come “oggetti” e “prede”. Questo porta a normalizzare atteggiamenti discriminatori apparentemente innocui, che legittimano livelli di violenza sempre più gravi. Il risultato? Una società in cui il potere maschile prevale, rendendo le vittime invisibili e i carnefici impuniti.
È proprio in questo contesto, definito “cultura dello stupro”, che ci ribelliamo. Siamo stufe di vedere foto di panchine rosse il 25 novembre e ricevere mimose l’8 marzo. Non vogliamo vergognarci quando denunciamo una violenza subita. Non vogliamo più sentirci giudicate, costrette a difendere le nostre scelte di abbigliamento o comportamento. Vogliamo essere credute e rispettate. Vogliamo giustizia per le nostre sorelle che non ci sono più. E, se non è troppo, vorremmo anche rimanere in vita per gridare le nostra libertà. Perché, se le forme di violenza sono diverse, esiste un grande denominatore comune: il nostro aggressore è sempre un uomo.