Metà pomeriggio. Sono a casa. Suona il campanello. Succede di rado. È un condomino con dei fogli, sta raccogliendo delle firme. “Hanno firmato tutti”, precisa. Chiedo di dare un’occhiata alla lettera sotto cui le firme risulteranno apposte. Vado a memoria: “Nel nostro quartiere la vita quotidiana è ormai insopportabile”; “presenza di asilanti sospetti che creano un clima di paura e insicurezza”; “alcuni di noi evitano di uscire dopo il tramonto”; “ci chiediamo se possiamo ancora mandare i nostri figli a scuola da soli, se possono ancora uscire a giocare”. Si arriva poi a formulare delle richieste al Municipio. Vado di nuovo a memoria: “Più pattuglie di polizia, di giorno e di notte”; “più telecamere e sorveglianza”; “maggiore illuminazione notturna”; “posa di recinzioni”; “incontri periodici tra abitanti del quartiere e Autorità”.
La lettera parla del quartiere in cui vivo, ma descrive una realtà che non conosco e auspica degli interventi che non capisco. Non firmo. Mi pare di notare una reazione di sorpresa, come se una visione e un’attitudine diverse da quelle condensate nella lettera non fossero contemplabili. Chiusa la porta inizio a riflettere. Prima di tutto mi chiedo dove si vorrebbe arrivare, di questo passo… A una società in cui si sta barricati in case attorniate da recinzioni, guardie e telecamere, per paura di chi sta fuori (perché non ha il privilegio di avere una casa sua dove rintanarsi)? No grazie, non fa per me. Secondariamente mi chiedo come ci si è arrivati, a questo punto. Tanto più che la persona che mi ha molto gentilmente chiesto di firmare è tutto fuorché un esagitato intollerante. Cosa può spingere il classico “buon padre di famiglia” a mobilitarsi, a suonare i campanelli per una simile causa? La risposta che mi do è racchiusa in un concetto apertamente evocato nella lettera acclusa alla raccolta firme: la paura. Del diverso, dell’ignoto, di ciò e di chi non si conosce. È un sentimento soggettivo e irrazionale, e il fatto che io in questo caso non ne sia toccato non mi autorizza a sminuire e men che meno a criticare chi invece ne è vittima.
Continuando a riflettere mi chiedo a questo punto come nascono e come si diffondono, certe paure. Poi riformulo la domanda: come vengono create e come vengono diffuse, certe paure? Lo vedo da anni nella mia spasmodica lettura della stampa più disparata (leggo di tutto, senza vergogna e senza distinzioni). Persone in vista, di potere, che da tempo flirtano con il razzismo, fermandosi chirurgicamente un solo millimetro prima di essere denunciabili, ma lasciando liberissimo sfogo a chi li segue di riversare astio e violenze assortite sotto forma di commenti. Provocatori, seminatori d’odio, avvelenatori della vita sociale. Dagli alti scranni su cui sono seduti lanciano verso il basso benzina e cerini accesi e guardano compiaciuti “l’effetto che fa”. Potrei fare nomi e cognomi, ma non è questa la sede. Vorrei però prima o poi potermi confrontare, con alcuni di loro. Per provare a capire come si possa diventare così.
In mente mi balena un verso di quell’enorme canzone che è “La Storia” di De Gregori: “Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa, quando viene la sera”. Perfetto, di questo si tratta. Da novello “signor Palomar” quale sono, non ho ancora finito di riflettere, e ora i miei pensieri si dirigono verso “gli altri”, quelli che nella lettera vengono qualificati come “gli asilanti”. Come possono sentirsi, loro, nel vedere la gente che cambia marciapiede quando li vede arrivare, troncando sul nascere quella che avrebbe potuto configurarsi come l’idea di un incontro? Le migrazioni ci riguardano. Chiamarci fuori non è una possibilità che ci è data. Siamo per forza coinvolti e queste persone sono ospiti sul nostro territorio. La cosa migliore che “i nostri bambini” possono fare, stando così le cose, sarebbe giocare con “i loro bambini”, senza nemmeno percepirla, questa distinzione che appartiene a noi adulti. Si divertirebbero e imparerebbero qualcosa, a tutto vantaggio della loro generazione e di quelle a venire. Gli estensori della lettera, ricordo, chiedono incontri regolari con “le Autorità”. Perché invece non incontrarsi regolarmente con gli ospiti dei Centri? Sarebbe questa, ne sono convinto, la strada da percorrere per superare finalmente le paure. Incontrare, interagire, capire, conoscere. Questa è la via giusta, in tutti gli ambiti dell’esperienza umana.
Un’ultima annotazione personale: Io non ho più bambini. Ho due figli adolescenti. Non ho mai avuto paura che “andando a scuola da soli” potessero incontrare dei malintenzionati. E infatti non è mai successo. Ho invece sempre avuto paura che potessero ritrovarsi faccia a faccia con il razzismo e si lasciassero irretire – anche solo per un minuto – da un tipo di pensiero così banale e lineare (“noi contro di loro”). E infatti è puntualmente successo, generando un sordido episodio e tanto dolore, che ancora pulsa. Il pensiero, anche quello più mediocre e scellerato, “non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare” (“come è profondo il mare…”). Si insinua e può arrivare ovunque, a maggior ragione se c’è chi soffia sul fuoco. Nessuno può dirsi davvero al riparo, e in questo caso non c’è recinzione o sorveglianza che possa tenere.
Teniamo sempre alta l’attenzione e stiamo sempre pronti ad aprire il cuore e le braccia, in segno di accoglienza. Questa è la via.