Per il responsabile regionale di Pro Juventute Ilario Lodi, fortemente sollecitati nelle scuole, ‘stiamo vivendo un profondissimo deficit di collettività’
«Le famiglie oggi sono state private, direi addirittura espropriate, del loro diritto a educare». Può dunque non sorprendere il dato, preoccupante, che le porta, insieme al mondo della scuola, a chiedere sempre più aiuto. Ilario Lodi, responsabile regionale di Pro Juventute da 17 anni, lo sa bene, chiamato spesso a intervenire per risollevare educatori disorientati e giovani, e giovanissimi, ansiosi e angosciati, in quello che è un quadro della nostra società estremamente puntuale e inquietante.
È vero che stiamo assistendo a un aumento di domande di intervento nelle scuole anche di grado inferiore?
Oggi sempre più genitori si sentono dire che se i loro figli non raggiungono certi risultati sono ‘fuori dai giochi’, una pressione che li porta a credersi inadeguati e a delegare quindi molti dei loro compiti educativi all’esterno, e questo loro malgrado, esprimendo perciò varie forme di malessere. Ciò succede sempre più frequentemente con forti ripercussioni sui bambini che frequentano anche le scuole elementari. Sono pressioni di ogni genere (dall’ambito scolastico a quello sportivo, fino a quello professionale per i più grandi) e che generano dei danni che lasciano fortemente insoddisfatti i bambini, non permettendogli di vivere quello che è il loro compito principale che, sostanzialmente, è quello di crescere. È come se si dovessero occupare di ‘altro’, ma questo ‘altro’ non è un ‘altro’ per i bambini, è un ‘altro’ che gli adulti vanno a loro imporre.
Oggi la questione pare più critica, ma non lo avrebbe dovuto essere piuttosto nel passato quando le famiglie, per minore educazione e mezzi, erano chiamate sì a demandare al loro ruolo?
Questa è una domanda importante. Non sono famiglie diverse! E qui anticipo già una conclusione. Le famiglie devono essere consapevoli del fatto che tutto ciò che è necessario per poter educare al meglio i propri figli ce l’hanno già. Ce l’hanno nell’amore paterno e materno, nelle relazioni, nella condivisione degli ambienti e degli spazi, nelle parole che usano per interloquire, anche nelle litigate che fanno, insomma ce l’hanno in tutto il contesto esperienziale che li contraddistingue. Il problema è che non sono sempre consapevoli della ricchezza enorme che hanno, proprio perché sistematicamente si sentono dire ‘state attenti che il mondo fuori va a 300 all’ora e voi non potete star qui a giocare con le macchinine con vostro figlio’. Per questo non faccio fatica a credere che un genitore, che ha delle lecitissime ambizioni di vita per i propri figli e che vuole il meglio per loro, cominci a indirizzarsi a destra e a sinistra. Questo però genera degli scompensi per l’equilibrio educativo dei bambini che iniziano a non più identificarsi con quello che stanno facendo. Sta qui il problema, ed è enorme.
Ovvero?
I più piccini fanno fatica a descrivere queste situazioni in quanto non hanno le parole per esprimerle perché non hanno ancora maturato gli strumenti per poterle comunicare. Sperimentano qualcosa a cui non riescono a dare un volto. E questo è estremamente delicato. Il secondo aspetto è che se non riescono a comunicare quanto vivono si rivolgono all’unica cosa che sanno fare che è la loro capacità di agire. E queste azioni non sempre sono salutari per i bambini stessi. Anzi cominciano a diventare complicate, perché magari le rivolgono anche contro sé stessi manifestando un chiaro disequilibrio che si è venuto a creare tra quelle che sono le esigenze educative del bambino, a cui tutti abbiamo dovuto far fronte, e quelli che invece sono i desiderata di un mondo che va sempre più veloce. Ergo, se non riesco a comunicare lo faccio vedere. E nel momento in cui lo faccio vedere, lo faccio in termini di disagio.
È qui che entra in azione il professionista?
Per far fronte a questo disagio cosa facciamo noi? Chiamiamo il pedagogista o lo psicologo di turno che viene a mettere però un cerotto, agendo sulla ‘malattia’, se la vogliamo chiamare così, anziché cercando di comprendere quali sono gli elementi che hanno portato fino a lì. Perché tutto mi si può dire ma non che un ragazzino sia votato all’infelicità! Eppure oggi ne incontriamo sempre più frequentemente. Perché? Questa è ‘la domanda’.
Perché forse, in quella che pare una società a corto circuito, è difficile individuare il punto esatto dove il disagio si sprigiona?
Curarlo non è facile, assolutamente! Sa cosa le dico? A pagina uno di ogni manuale di pedagogia c’è scritto: ‘Trova il modo di tenere assieme tutto’, trova il modo di dare coerenza a tutto quello che fai. Oggi invece siamo finalizzati agli elementi individuali dell’esperienza che i bambini fanno. Ma i tre elementi (bambino, famiglia e società) oggi sono slegati. Il contesto familiare che sarebbe votato a questo crede, come detto, di non poterlo fare. L’esasperata individualizzazione delle esperienze lo porta quindi a costituirsi come soggetto incapace di stabilire delle relazioni, e dunque benessere, tra le esperienze che fa. Oggi sentiamo spesso parlare di competenze ma questo concetto è interpretato in termini diametralmente opposti da quello che è la sua radice etimologica: competere significa ‘andare insieme nella stessa direzione’, oggi (e qui mi riferisco alla litania della competitività) significa soprattutto annientarsi gli uni con gli altri. Un aspetto che sta separando non soltanto le esperienze, ma anche le persone.
Dove sta fondamentalmente il problema?
Pensiamo alla differenza che si ha nella percezione del tempo. Il Chronos e il Kairos, tempo della lunga durata contro tempo della segmentazione delle esperienze (tanto per capirci). Tutto ciò che ha a che fare con la continuità l’abbiamo espulso dalla nostra esperienza perché siamo chiamati a reagire immediatamente a tutto. Provi a chiedere a un ragazzino cosa succede se non risponde subito a un messaggio WhatsApp… Siamo condannati al ‘qui e adesso’. Ma essere condannati al ‘qui e adesso’ significa non potersi costituire una storia e un’identità. Significa navigare a vista e ciò è un invito a nozze nel mercato delle competenze che cambiano continuamente. E questo ha un prezzo. Perché se ho male alla spalla dovrei poter andare da un ortopedico e non da qualsiasi altra persona, peccato che oggi questo ortopedico mi consideri come spalla e non come soggetto che sta soffrendo. L’effetto? Significa che l’altra persona non conta più per me e se non conta più per me significa che lei non può più contare su di me. E il fatto che non si possa più contare sugli altri in un contesto democratico come il nostro, secondo me, è abbastanza problematico.
Individualismo e budget sembrano essere i maggiori problemi della scuola moderna. Anche organizzare una gita scolastica pare un problema insormontabile. Ma il beneficio per alunni e classi dove lo mettiamo?
Lei mi sta provocando (sorride, ndr). Noi oggi viviamo con i ragazzi un fenomeno che è relativamente nuovo. Stiamo vivendo un profondissimo deficit di collettività. Se noi vogliamo che i ragazzi facciano sistema e che non si ritrovino, da soli, a vagare fra gli eventi, dobbiamo garantire loro esperienze esistenziali che possano collettivizzare quello che vivono individualmente. Stralciare dai bilanci le settimane verdi o bianche significa in primo luogo non aver capito nulla dell’importanza delle relazioni fra i bambini e dir loro che contano meno di quei quattro soldi che potremmo investire per un’esperienza che fa di loro un Paese domani. Un altro problema è che i genitori, impegnati entrambi a lavorare, optano sempre meno, in estate, per le attività residenziali e le colonie. Preferiscono avere a casa i figli la sera. Se questo è giustificabile, essendo madri e padri impegnati tutto il giorno, ciò priva però i ragazzi di un’ulteriore possibilità di sviluppare un’esperienza collettiva e di potersi avviare alle pratiche della cittadinanza, di cui tutti nel nostro Paese abbiamo bisogno. E che manca come l’aria. Sa quanto costa tener aperto un centro giovanile per un anno? L’equivalente di cento metri di marciapiede. Cento metri di marciapiede sono forse più importanti di un centro giovanile? L’incapacità di vedere l’importanza di questi aspetti significa, ancora una volta, essere vittime del fatto di dare importanza solo alle esperienze individuali. Oggi, invece, i problemi sono sempre più globali, eppure siamo ancora vincolati al locale che è ancora più locale di quanto immaginiamo. C’è una contraddizione? Secondo me sì!
In che modo Pro Juventute interviene nelle scuole?
Ci sono due livelli. Il primo è un intervento puntuale che non vedo con grande interesse. Mi spiego, la scuola mi chiama per un pomeriggio per un problema di cyberbullismo. Di solito non dico di sì, perché è una toccata-e-fuga. Per tanto così il web ne sa più di me. Se quella scuola mi accoglie, invece, permettendomi di entrare a più riprese, allora incarno il mio ruolo di pedagogista e non di semplice informatore. Interveniamo su temi particolari fra cui, vorrei citare, la filosofia per bambini dove possiamo parlare di percezione di sé e di bellezza, di relazione, quindi dell’altro, dell’importanza del contatto e della collettività, di valori fondamentali. Che senso ha parlare, infatti, di rispetto della legge se i bambini non sanno cosa sia la giustizia? Di indebitamento se non conoscono il valore del denaro? Di stress se non sanno riconoscere cosa sia importante e cosa no o del proprio aspetto, se non sanno cosa sia la bellezza?
La risposta delle scuole?
Se prendo gli insegnanti uno per uno siamo sempre d’accordo e la risposta è quasi sempre positiva, se guardo però alla scuola vedo che va in un’altra direzione che non è quella che auspicherei, quantomeno non tutta. Mi preoccupa l’istituzione scuola in quanto non sta più rispondendo, come dovrebbe, a quelli che sono i bisogni educativi dei bambini, ma sta invece prestando più ascolto a quelle che sono le esigenze ‘esterne’. Il mondo del lavoro in questo ha una forte influenza. La scuola si vede così quasi privata del suo dovere di fare educazione, dovendosi occupare più di formazione, il che non è la stessa cosa. Un discorso più profondo lo si può fare per gli apprendisti. Il problema oggi in Ticino non è trovare un posto di apprendistato, ma riuscire a mantenerlo. Gli imprenditori dovrebbero in questo caso tematizzare argomenti come la responsabilità, il rispetto degli altri, il sentimento o la percezione dell’importanza del lavoro. Noi lo facciamo attraverso uno specifico programma educativo.
Come la famiglia, dunque, anche la scuola sempre più privata del suo ruolo educativo?
Non credo che se la scuola avesse carta bianca farebbe quello che fa, credo più che vi sia costretta. E questo trovo sia un dramma. Le faccio un esempio: uno degli aspetti più importanti della mia formazione sta nell’esperienza maturata in colonia. Lì, dove c’erano moltissimi docenti, ero testimone dell’apprendimento che i docenti facevano dell’esperienza collettiva che poi riportavano a scuola. Oggi non si trovano più docenti che vogliono andare in colonia, perché ne hanno abbastanza del lavoro che devono fare. E l’estate se la vogliono, direi anche giustamente, godere. È come se avessero però perso la possibilità di inanellare tutta una serie di esperienze maturate su tutto l’arco dell’anno, per saltare di obiettivo in obiettivo. Che relazione c’è fra il loro aspetto formativo e quello che sta diventando il loro aspetto professionale? Perché oggi faccio fatica a vedere questa relazione…
Quali riflessioni e sfoghi raccogliete fra i ragazzi?
Una cosa che tutti mi dicono a parole e a gesti, nel non verbale e soprattutto nei silenzi, è che non riescono a immaginarsi nel futuro. Hanno perso la passione e la capacità di dirsi, perché noi adulti non l’abbiamo condivisa con loro, quale vita voglio vivere. Sono ragazzi soli e le loro relazioni sono contraddittorie per tre motivi: sono immediate, in un certo senso subito complete, però sono mediate, quindi non autentiche. E poi sono relazioni uno a… non si sa bene cosa… Non ci sono interlocutori fra e per questi ragazzi, perché non hanno appreso l’arte dell’interlocuzione, della relazione, della capacità di porsi su un piano che sia ‘con-diviso’, che sia costruito, che sia anche sofferto ma che accomuna. Quel deficit di collettività di cui parlavamo prima.
Chi ha tolto loro questa visione verso il futuro, che avevano invece le precedenti generazioni?
È una domanda importante. Sono venuti a cadere i canoni educativi a cui facevamo riferimento fino a trent’anni fa. Giusti o sbagliati che fossero, ma c’erano ed erano importanti perché segnavano l’educazione di un ragazzo, magari certo anche nel male e lì si doveva in un modo o nell’altro porre rimedio. Mi spiego meglio con la figura degli arcipelaghi cara ai postmoderni. Con la caduta dei grandi sistemi, pensiamo al Muro di Berlino, con la caduta delle grandi riflessioni si è, infatti, cominciato a parlare di piccole narrazioni, gli arcipelaghi appunto. Si è sdoganato un modo di pensare e agire individuale, perché quello che prima era ritenuto importante è stato visto come restrittivo. Dalla collettività si è passati all’individualità, ciò che ha portato a privilegiare il sé nei confronti degli altri. Questo taglio delle relazioni ha portato a privilegiare il concetto di esperienze, di libertà, di autoimprenditorialità che pur essendo aspetti importanti della vita di una persona confondono il fine con il mezzo. Se dico a un ragazzo che sta commettendo una sciocchezza, lui mi risponde che non posso impedirgli di vivere la vita che vuole vivere, senza però minimamente porsi la questione del senso della vita che sta vivendo. Qualcuno potrebbe dirmi che non sono io che devo dirglielo, invece qui casca l’asino: è la collettività infatti che deve mettersi d’accordo sul tipo di vita che vogliamo vivere. Perché altrimenti i ragazzi percependo di essere un insieme di isole, anziché esseri sociali, vivono con sofferenza. Altro esempio. Quante possibilità oggi ha un ragazzo di spendere denaro nel tragitto che collega la stazione di Locarno alle scuole professionali? Ad ogni piè sospinto. Oggi, dunque, i ragazzi sono considerati dei consumatori e non degli individui. Ed è chiaro che se li consideriamo consumatori, la loro risposta sarà da consumatori. Purtroppo siamo noi adulti che abbiamo messo loro sul tavolo questo tipo di modalità di relazione. Dopo è chiaro che per un ragazzo è difficile sottrarsi, è bello vivere quel mondo lì in quel momento lì, ma tutto questo genera poi degli scompensi.
È possibile far rientrare questi ragazzi e il loro disagio in una statistica?
È difficile rispondere, ma sicuramente sono molti di più di quanto noi crediamo. È un pentolone che sta bollendo, non è ancora arrivato a temperatura per esplodere, ma ci siamo quasi. Perché se lei chiedesse a qualche clinica psichiatrica quanti posti disponibili hanno per ragazzi adolescenti o pre-adolescenti si sentirebbe rispondere che sono tutti già occupati. Ma ci rendiamo conto? Se già in così poco tempo siamo riusciti come società a causare tutti questi danni, non oso immaginare cosa capiterà fra 15-20 anni, quando questi giovani saranno diventati degli adulti. Cosa possiamo fare? La voglio provocare… Chiuderei la scuola per un anno e porterei i ragazzi a fare esperienze di tutt’altro genere per stare insieme, per vivere insieme, per maturare relazioni significative, per riportarli a sé stessi attraverso gli altri. È questo che manca oggi, perché gli altri per i ragazzi non esistono e quando li vedono sono il frutto dell’intelligenza artificiale! Il concetto di competitività fa prevalere il ‘mors tua vita mea’, fino però a ritrovarsi veramente da soli.