Un capitale sempre più finanziarizzato a fronte di lavoratori sempre più frammentati e sempre meno politicamente rappresentato
“La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. Questo aveva capito l’oracolo di Omaha, l’investitore miliardario Warren Buffett nel 2006, poco prima della grande crisi finanziaria del 2008. Una crisi devastante, un monito a non cedere a simili trionfalismi visto quanto successo in passato, quel passato contrassegnato da crisi ricorrenti che di volta in volta hanno ridefinito il livello della lotta tra capitale e lavoro. Un capitale sempre più finanziarizzato a fronte di una classe lavoratrice sempre più frammentata e sempre meno politicamente rappresentata, un’asimmetria che ha permesso, di fatto, l’esplosione delle disuguaglianze e della povertà. Ci è voluto un virus intangibile per fare quello che la classe dei poveri non era più in grado di fare, per sospendere quella deriva austeritaria tanto funzionale alla crescita delle rendite finanziarie. Una finestra temporale, una sospensione, durante la quale è sembrato ai più di aver ritrovato un sentiero di sviluppo virtuoso attento all’equità e alla coesione sociale.
Niente di tutto questo. La ripresa post pandemica è anche la ripresa della lotta di classe dei ricchi contro i poveri, con rinnovato vigore, quasi a ricordare a chi da tempo ha rimosso l’idea stessa del conflitto (terza via e dintorni), che vincere una volta significa prepararsi alla vittoria successiva. Se è vero che da decenni il campo di battaglia di questa lotta è stato lo Stato sociale e la sua funzione regolatrice del mercato, oggi è all’insegna del pareggio di bilancio accompagnato da simultanei sgravi fiscali per i più ricchi che tale lotta si rinnova. Obiettivo, quello del pareggio di bilancio, certamente legale, tanto che l’abbiamo votato, ma non per questo reale e realistico.
In assenza di variazioni significative dei tassi d’interesse reali, ci sono solo due modi per ridurre i disavanzi pubblici nel lungo periodo: modificando le regole di calcolo delle imposte per aumentarne il rendimento; oppure facendo in modo che la crescita della spesa pubblica sia inferiore alla crescita potenziale dell’economia. La terza opzione – aumentare il potenziale di crescita dell’economia e la qualità di tale crescita – è chiaramente la più auspicabile, ma rimane difficile in un cantone dove mancano una politica industriale e un progetto di sviluppo economico e sociale a lungo termine. E in ogni caso richiede tempo. E il tempo passa, mentre si parla di tagli e di sgravi. I primi, agendo in particolare su salari e sussidi, dovrebbero riequilibrare i conti pubblici, mentre i secondi dovrebbero alleggerire i bilanci dei contribuenti più agiati, stimolare i consumi e creare occupazione. Da un lato si taglia e si penalizza chi lavora, in particolare nei settori dell’amministrazione pubblica, della cura e dell’insegnamento. Dall’altro si diminuisce il prelievo fiscale confidando in un effetto miracoloso su spesa e occupazione. Un miracolo, conosciuto anche come “trickle down” o sgocciolamento della ricchezza dall’alto verso il basso, mai avvenuto e mai provato empiricamente da nessuno.
Il punto è questo. Agire contemporaneamente su tagli alla spesa pubblica – in particolare sui costi del personale e sui sussidi al terzo settore a cui sono stati delegati importanti servizi alla popolazione – e su sgravi fiscali può portare al riequilibrio dei conti dello Stato? Paradossalmente, in realtà, un risultato potrebbe essere un aumento del disavanzo, in particolare se la riduzione delle entrate fiscali dovesse superare i risparmi derivanti dai tagli alla spesa. Si darebbe così avvio a quell’esercizio acrobatico volto alla ricerca dell’obiettivo del pareggio di bilancio, paragonabile alla fatica di Sisifo richiamato da Daniel Ritzer nel suo commento apparso su ‘laRegione’ del 24 gennaio 2024. Un obiettivo ancor più chimerico in una fase di oggettiva difficoltà come quella attuale, tra problemi strutturali, difficoltà congiunturali, diffuso impoverimento e tensioni geopolitiche, in cui le misure di austerità possono essere ancora meno efficaci e il taglio simultaneo di spesa pubblica e imposte potrebbe peggiorare ulteriormente la crisi economica ed esacerbare le disuguaglianze di reddito.
È forse utile ricordare che nella storia del Novecento le svolte autoritarie sono sempre state precedute da politiche austeritarie, nel nome dell’abbattimento del debito pubblico attraverso la riduzione della spesa dello Stato e la riduzione dei salari. Per evitare un ripetersi della storia, sarebbe saggio abbandonare quella camicia di forza del pareggio di bilancio, anche per ridare legittimità e autonomia progettuale alle forze politiche chiamate a rappresentare la comunità dei cittadini. Una comunità che, proprio perché si sta impoverendo, fa ancora fatica a ritrovare quel vigore e quella compattezza necessari a contrastare politiche che perseguono interessi altrui. Ma, come detto, la lotta di classe esiste. Non è detto che la vincano sempre gli altri.