L’arretramento qualitativo della partecipazione comunitaria lascia spazio a un modello che esclude, divide e disgrega
In un suo appunto del 1955 Hannah Arendt – la filosofa che ci illustrò l’inquietante banalità del male – scriveva che “oggi la politica consiste in effetti nel pregiudizio verso la politica”. Io interpreto questa constatazione come denuncia senza appello del diffuso indifferentismo verso la politica, considerata cosa sporca e da scansare. È, questa, una convinzione diffusa ma da rigettare: produce la sfiducia che sgretola la democrazia.
La politica – ci dice Arendt – deve perseguire la “generale comunanza di interessi” e “l’inclusione dell’altro”. Questo deve essere, ma purtroppo questo non è. In taluni ambienti della destra-destra (che propugnano il presidenzialismo tutto d’un pezzo, ma pensano all’uomo forte, petto in fuori, sguardo truce e “comando io”) oggi vi è un manifesto orientamento totalizzante, se non totalitario. Pluralismo e libertà faticano a sopravvivere e i presupposti della democrazia liberale sono rimessi in discussione da chi vuol riscrivere la storia e reinventare una coscienza comune conforme alla sua particolare visione del mondo: una destra-destra – per dirla con Ezio Mauro – impegnata a diffondere un senso comune fatto di pregiudizi, sentimenti, aspettative, emozioni. È una sorta di “revisionismo dell’opinione pubblica” con cui l’idea di democrazia subisce una subdola torsione e una mutazione: perde la componente liberale per assumere il carattere di un modello di gestione del potere che, lo sappiamo, non è propenso ad applaudire con incondizionato entusiasmo lo Stato di diritto, la democrazia costituzionale e inclusiva e il rigoroso rispetto dei diritti fondamentali.
Insomma, non prendiamoci in giro: gli insistenti discorsi sui principi (peraltro rispettabili) del conservatorismo liberale servono a questa destra-destra da paravento per occultare il pensiero gerarchico postfascista. Leggo Michela Murgia, mordace scrittrice, cittadina impegnata e donna coraggiosa, e capisco perché sia invisa agli intellettuali ruffiani, quelli che preferiscono “stare in mezzo”, quelli dei “però” e dei “ma”.
Non so a voi, ma a me ritorna alla memoria l’incipit della Politica di Aristotele, Libro I: “Risulta subito evidente che ogni città è una comunità e che ogni comunità si costituisce proponendosi per scopo un qualche bene (…). Ciò posto, possiamo dire che soprattutto vi tende e tende al più eccellente di tutti i beni quella comunità che regge e comprende in sé tutte le altre”. A voi non è capitato al cospetto dell’indecenza di certi spettacoli offerti da taluni governanti e taluni partiti di interrogarvi sul fine ultimo della Politica? Non vi siete mai chiesti se quello che scorre, troppe volte, davanti ai nostri occhi sia il prodotto di una coscienza politica, di una visione politica che mira al bene pubblico?
Il solito Aristotele ci dice che l’uomo è un animale politico per sua natura e aggiunge, tra l’altro, che la comunità politica non può comprendere animali perché incapaci di razionalità: oserei dire che il filosofo di Stagira in questo frangente abbia peccato di ottimismo. Ad assistere a certe esibizioni, qui e altrove, a seguire certi sragionamenti, c’è da dubitare che il criterio della razionalità e la capacità di distinguere il bene dal male siano elementi fondanti della politica in circolazione. Oggi in certi orientamenti si avverte uno snaturamento del fare politica che accantona il principio di condivisione del bene collettivo e produce settarismo predatorio e rancoroso spirito rivendicativo nei confronti di ogni opposizione. Sarò forse affetto da eccessivo pessimismo, ma a me pare che la categoria dei politicastri, o politicanti che dir si voglia, abbia il sopravvento su coloro che, con merito e competenza e spirito di servizio, si sforzano di praticare la vera Politica.
Ci avevano insegnato, i Greci, che il Polìtes, il cittadino della Polis, ossia dello Stato, è coinvolto nella vita della sua comunità e, attraverso la libertà di parola, prende parte alle decisioni, la cui meta è il “vivere bene”. Noi abbiamo puntato a questo fine percorrendo due strade: nel secondo Dopoguerra abbiamo proposto lo Stato costituzionale di diritto che vincola e subordina le leggi materiali al rispetto della dignità di tutte le persone, e abbiamo provveduto a garantire il bene comune attraverso il welfare che attenua il divario fra ricchi e poveri. Principi che suonano come obiettivi mai raggiunti ma che la Politica deve incessantemente inseguire per tener fede al suo fine, quello della “felicità collettiva”. Ebbene, il mondo di oggi va piuttosto all’incontrario: invece di optare per una comunità politica che includa, valorizzi le differenze e attenui le diseguaglianze, preferisce puntare sul modello comunitario che esclude e divide e disgrega.