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La Grande Dimissione: esodare per lottare

Sempre più lavoratori si licenziano per riconquistare una qualità di vita dopo decenni di deriva liberista.

(Depositphotos)

“Il capitale ha dominato il lavoro per mezzo secolo. Ma la situazione sta cambiando. Datori di lavoro, prendete nota”. Si conclude con queste parole l’editoriale del Financial Times di mercoledì scorso dedicato alla Grande dimissione, The Great Resignation, il movimento di massa che dall’inizio della pandemia vede milioni di cittadini licenziarsi per riconquistare una qualità di vita, un equilibrio tra lavoro e vita, profondamente compromesso da decenni di deriva liberista. Su Ticino7 di sabato scorso si può leggere un’analisi molto accurata di questa “svolta esistenziale” a cura di Mariella Dal Farra: “È successo qualcosa d’imprevisto, o meglio, sta succedendo. Sì, certo, una pandemia, si dirà. Ma non è solo questo: si tratta delle implicazioni più o meno dirette che tale evento sta generando”. Vivere per lavorare o lavorare per vivere, è questo l’interrogativo che la crisi pandemica suscita nell’immaginario collettivo.

Non si tratta di un movimento esclusivamente americano, se è vero che secondo un recente sondaggio di Microsoft il 41 percento della forza-lavoro globale sta considerando di dare le dimissioni perché rifiuta il sovraccarico di lavoro, il lavoro sottopagato, il burnout digitale, la mancanza di rispetto e l’isolamento sociale. Basti ricordare che in Giappone, paese tra i più lavoristi al mondo, il governo ha proposto la settimana lavorativa di quattro giorni. In Cina, altro paese noto per i ritmi di lavoro massacranti, tra i giovani il movimento Tang Ping (sdraiati!) si sta espandendo in modo sorprendente e politicamente allarmante per le autorità cinesi.

È certo che il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro venutosi a creare non appena le economie hanno ripreso a crescere (a singhiozzo) dopo mesi di stallo, le misure di contrasto alla pandemia – dal lavoro ridotto nei paesi europei ai sussidi diretti ai lavoratori licenziati negli Stati Uniti –, la formazione di un risparmio forzato durante i mesi del confinamento sono tutti fattori che hanno giocato a favore di quel distanziamento esistenziale e critico dal lavoro che caratterizza il tempo presente. Mentre si sta ritornando rapidamente ai livelli di occupazione pre-pandemici, ovunque i posti di lavoro vacanti sono in aumento, il mercato del lavoro è teso e sempre più spesso i datori di lavoro sono costretti ad aumentare i salari per attirare forza-lavoro. In questo “non più non ancora”, nel tempo sospeso tra la pandemia e quel che seguirà, c’è chi temporeggia prima di accettare un lavoro qualsiasi, chi si mette in proprio e chi manifesta apertamente la propria disaffezione al lavoro senza timore di essere licenziato.

Più che un ”grande sciopero silenzioso”, come l’ha definito Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, sulle colonne del New York Times, la Grande dimissione rappresenta una forma di lotta inedita in queste dimensioni, un Grande esodo, l’uscita da un mondo del lavoro che in questi anni ha distrutto la collettività sostituendola con la connettività, la rete di relazioni impersonali che produce ricchezza a mezzo di solitudine. Esodare per lottare, sottrarsi da contesti lavorativi in cui si può solo perdere perché soli, isolati, non rappresentati. Una forma di lotta che sembra pagante, come dimostra uno studio della Federal Reserve di Atlanta secondo cui, nella seconda metà del 2021, i lavoratori che si sono dimessi hanno conosciuto aumenti salariali superiori a quelli dei lavoratori che sono rimasti fedeli al loro datore di lavoro.

Laddove, come in Svizzera, il lavoro ridotto ha vincolato la forza-lavoro al posto di lavoro, la ripresa economica ha subito riportato il mercato del lavoro alla sua (quasi) piena occupazione. Lo era già prima dell’evento pandemico, benché fosse di fatto una piena occupazione precaria, con percentuali molto elevate di lavoro parziale, sottoccupazione, lavoro a tempo determinato, interinale, lavoro a chiamata, freelance. Un mondo del lavoro attraversato da forme di povertà laboriosa e sempre più precario. Le forme di dimissione, se ci sono, si intravedono parzialmente nell’andamento dei posti vacanti o nell’aumento discreto del lavoro indipendente. Ma occorre orientare meglio lo sguardo.

Remigio Ratti si è chiesto recentemente: “È proprio vero che i frontalieri costituiscono per il Ticino un bacino di manodopera illimitato? Si direbbe di no, o, almeno, siamo invitati a riflettere” (Osservatore.ch, 22 gennaio 2022). Le province di Como e Varese si stanno sviluppando piuttosto a sud, per la tradizionale attrazione del motore milanese e per i grandi impulsi, diretti e indiretti, emergenti dagli importanti investimenti in corso. Ne risulta, secondo Ratti, la volontà di trattenere forza-lavoro qualificata al di là della frontiera. “Il tema dell’ineluttabilità della presenza di frontalieri viene ora accelerato dalla fine, analizzando gli ultimi cinque anni, del fenomeno degli immigrati, svizzeri o stranieri. Per la prima volta, risulta come siano più gli italiani partenti che non quelli in arrivo. E, soprattutto, le forze centrifughe ci sono anche da noi, con quasi un migliaio di giovani ticinesi che non rientrano dopo gli studi e chi trova lavoro oltralpe”. Se a queste tendenze si aggiungono i probabili effetti dell’entrata in vigore degli Accordi fiscali (2023?), con l’aumento della pressione fiscale per i frontalieri nei loro comuni di residenza che comporterà una riduzione dell’attrattività salariale del Ticino, è lecito chiedersi se anche da noi la Grande dimissione non si declinerà in modo dirompente.

A meno che in Ticino si esca finalmente da quel modello economico che ha visto molte, troppe imprese parassitare sulla disponibilità di lavoro vivo a buon mercato, migliorando le condizioni di lavoro, innovando i processi produttivi, investendo nella socialità come bene comune, insomma prendendosi cura della vita della comunità. Non è per niente scontato, le priorità politiche stanno altrove. In ogni caso, prendete nota.

Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog naufraghi.ch

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