“Serve un cambio strutturale”. Con questo titolo laRegione riferiva della conferenza stampa convocata a inizio settembre dal Partito liberale radicale e dall’associazione ‘LaScuola’ (costola scolastica del partito stesso). Vi si presentava un progetto di riforma della scuola media ticinese. In estrema sintesi: compattare e ridurre l’orario scolastico obbligatorio (da 33 a 30 ore settimanali, 6 ore al giorno per 5 giorni) liberando spazio, già nel primo pomeriggio, per altre attività formative. Una prospettiva intrigante. Le prime reazioni sono state per lo più di una cauta disponibilità a entrare in materia. D’altra parte gli stessi ideatori, consapevoli dell’attuale genericità della proposta, auspicano che si ragioni sul principio per dare forma successivamente a un impianto formativo “al passo coi tempi”. E proprio da quest’ultima affermazione si potrebbe partire per una prima apertura di dibattito. Che significato diamo a una scuola al passo coi tempi? E di conseguenza: che senso diamo oggi, politicamente e pedagogicamente, alla scuola dell’obbligo? Credo si possa concordare circa l’idea che la scuola è fondamento civico di una democrazia e suo dovere è quello di crescere intellettivamente delle persone responsabili, sforzandosi di dare a tutti una comune base culturale. Mi pare giusto, anzi opportuno, che a mezzo secolo di distanza dalla sua approvazione parlamentare, ci si chieda se l’attuale scuola media ticinese risponda ancora al principio istituzionale sopraccitato.
Vengo allora alla proposta liberale suggerendo un paio di stimoli riflessivi. Punto primo. Per ragionar di scuola dovremmo innanzitutto interrogarci sui bisogni educativi di ragazzi che si confrontano oggi con una realtà antropologico-culturale e socio-economica profondamente mutata. Consideriamo – per fare un solo esempio – l’avvento impressionante (nei tempi e nei modi) delle tecnologie digitali, che influenzano tanto l’esperienza comunitaria quanto i processi cognitivi e comportamentali del singolo. I social media, la virtualità relazionale, la frammentazione informativa, il calo dell’attenzione, le incognite dell’intelligenza artificiale… Sono dimensioni nuove con le quali abbiamo, anche scolasticamente, a che fare. Mi sarei dunque aspettato, da parte di chi propone una riforma, qualche considerazione circa lo stato presente del bisogno educativo. Ma fin qui, al di là di affermazioni reboanti, il tema non è concettualmente sostanziato. Le fondamenta di una “prospettiva che guarda al futuro” (i riferimenti sono all’iniziativa generica del Plrt) sono indistinte e maliziose. Non si vorrebbe mai che le “pressanti richieste di una società come l’attuale” concepiscano l’allievo nei termini di un esecutore qualificato anche se privo di una sua identità culturale definita.
Punto secondo. I riformatori d’ispirazione liberale insistono sulla possibilità/necessità di sviluppare un senso di “autonomia” nell’allievo. Questa intenzione merita particolare attenzione, anche perché – come vedremo – declina operativamente il delicatissimo tema dell’orientamento scolastico. Procediamo con ordine. La contrazione delle ore obbligatorie consente l’allestimento di un “doposcuola” interamente discrezionale e l’autonomia prenderebbe forma nella possibilità, per il giovane, di godere di piena libertà nelle scelte curricolari facoltative. Questa libera scelta contribuirebbe poi a determinare “l’orientamento scolastico e professionale”.
Si tratta di “consentire agli allievi la scelta di percorsi differenziati a seconda delle loro esigenze” (Gerardo Rigozzi sul Cdt del 25 settembre). Esigenze che per il ragazzino (volubile preadolescente) saranno comprensibilmente indirizzate dai genitori. E allora mi chiedo: saranno le stesse per chi proviene da famiglia abbiente, culturalmente strutturata, e per chi invece ha alle spalle una situazione familiare o una matrice socio-culturale meno fortunata? Si fa strada l’idea di una scuola dell’obbligo dove lo studente/genitore-cliente consumerà ciò che riterrà più opportuno per la sua crescita. L’offerta sarà ricca e differenziata per ogni istituto: dallo studio assistito al corso di teatro, dall’approfondimento matematico o linguistico al corso di arti applicate, alla musica, al latino; e infine spazio per proposte formative provenienti dalla società civile, dalle società sportive e, naturalmente, dagli “attori del mondo del lavoro”.
A ‘pensar male’ (come diceva Andreotti) vi si intravedono due rischi: uno, che il bagaglio comune di esperienze culturali, compensative del divario legato alla provenienza sociale (LSc, art. 2, lett. d), venga in parte sacrificato sull’altare del libero mercato formativo; due, che in fondo si intenda disegnare una scuola più interessata al mercato del lavoro che alla crescita della persona. La proposta liberale è “strutturalmente” accattivante. Ma illusoria, e persino pericolosa, quando immagina che le difficoltà della scuola media possano essere affrontate con la magica discrezionalità del doposcuola. Il suo merito indubbio è quello di costringerci a ragionare sul senso dell’obbligo scolastico: purché la riflessione possa essere concettualmente irrobustita e non sia frutto di ideologia più che di pedagogia.