Dopo un lungo dibattito, lo scorso mercoledì il Gran Consiglio ticinese, per soli due voti, ha rifiutato di concedere un credito al Decs per la sperimentazione inerente all’abolizione dei livelli A e B in matematica e in tedesco, inizialmente prevista per la terza classe delle scuole medie. Il messaggio educativo di chi si è opposto a questo progetto – al di là della fuorviante retorica volta a giustificare la propria posizione – è estremamente limpido: i livelli alle scuole medie vanno mantenuti, poiché si ritiene auspicabile riprodurre le disuguaglianze sociali, attraverso un contesto formativo, la scuola, che potenzialmente può invece ambire a ridurle.
L’introduzione della scuola media unica nel 1976 – frutto di battaglie politico-culturali che attraversavano anche i sistemi scolastici ed educativi – mirava a estendere l’istruzione pubblica unitaria, al fine di non costringere bambini (e famiglie) a scegliere il loro futuro già al termine delle scuole elementari. I rapporti di forza imposero un compromesso: nel secondo biennio, vi sarebbero state le cosiddette sezioni “Attitudinale” e “Base”. Nel rapporto della Commissione speciale del Gran Consiglio, si affermava però che questa suddivisione «non deve essere considerata quale scelta definitiva, ma dovrà essere […] riveduta nell’ambito dell’esperienza dei primi anni della scuola media, nella ricerca della soluzione che, se possibile, permetta di superare questo dualismo e di giungere a una concezione più unitaria della scuola» (p. 13).
A oggi, pur con alcune modifiche, questa divisione permane, continuando ad acuire le disparità già presenti tra gli allievi (il maschile, singolare e plurale, è utilizzato solo per ragioni di spazio). Attraverso la retorica – ideologica e classista – del “non tutti hanno le stesse capacità” o, per utilizzare la stessa terminologia che definisce i livelli, “le stesse attitudini”, si sostiene che la scuola deve assecondare le “naturali” inclinazioni degli allievi, favorendo chi è già facilitato nel percorso scolastico e penalizzando chi lo vive con difficoltà (una scuola che «cura i sani, e respinge i malati», come scrivevano i ragazzi della Scuola di Barbiana).
Una retorica che occorre ribaltare, secondo quella che potremmo definire “l’Abc” della selezione sociale: l’Attitudine dell’allievo è Basata sulla Classe sociale. Questa fiducia nei propri mezzi, acquisita grazie al contesto socio-economico familiare, condiziona inevitabilmente le possibilità di riuscita nel sistema scolastico (a titolo di esempio, basta osservare il nesso tra origine socio-economica e note scolastiche alle pagine 53 e 54 dell’ultimo rapporto quadriennale “Scuola a tutto campo”, consultabile online). Chi sta nella “massima serie”, ha diritto a scegliere il suo futuro con maggiore serenità; chi è relegato nella “categoria inferiore”, si trova la strada sbarrata non solo per quanto riguarda gli studi liceali (o simili), ma spesso anche per gli apprendistati.
Lavorando con ragazze e ragazzi, una delle frasi che si sente più spesso è “non sono capace”, oppure “non sono portato”, che si trasforma in fretta in un “non mi piace”, nella rassegnazione a un futuro dalle ristrette possibilità. Come può non generare malessere, a dodici anni, venire etichettati come allievi di “serie B”? Si obietterà che ci sono eccezioni di riuscita, che “ai meritevoli sono assicurate le opportunità”. Le eccezioni non giustificano il sistema, ma stanno a dimostrare, invece, che le potenzialità di molti sono sacrificate al fine di conservare i privilegi di pochi; mentre le ricerche sulla mobilità sociale, indicano come essa sia in costante diminuzione rispetto a qualche decennio fa. Le possibilità, non solo realizzabili, ma anche immaginabili, sono ancorate alla posizione di classe.
Prima di concludere, una breve considerazione pedagogica, per tranquillizzare chi si preoccupa del fatto che, con l’abolizione dei livelli, gli alunni “dotati” verranno penalizzati: imparare a collaborare, a riuscire come classe scolastica, e non solo come singolo, è la migliore lezione di umanità che essi potranno apprendere nella scuola dell’obbligo, e li renderà al tempo stesso studenti migliori, più consapevoli del funzionamento delle materie in cui già ottengono buoni risultati.
Il sistema scolastico obbligatorio, oggi diventato un diritto, non lo è sempre stato: si tratta di una conquista recente e non acquisita. La storia dell’educazione mostra un progressivo e faticoso allargamento democratico del sistema scolastico, frutto sia di battaglie politiche, sia di esigenze produttive. La mancata sperimentazione non rappresenta un’occasione persa, ma l’espressione dei rapporti di forza in parlamento: sta a chi è dalla parte di un’istruzione democratica, concepita come possibilità di emancipazione, impegnarsi affinché i livelli vengano aboliti, per tentare di realizzare quella che Gramsci nel 1916 definiva «una scuola che non ipotechi l’avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a una stazione prefissata».