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Klaudia Reynicke racconta il suo ‘Reinas’

Abbiamo incontro la regista che ha voluto raccontare la storia di una famiglia che si unisce di fronte alla fine

Gonzalo Molina (Carlo), la regista Klaudia Reynicke e Abril Gjurinovic (Lucia)
(LFF/Ti-Press)
14 settembre 2024
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‘Reinas’ è la storia di un padre che, dopo anni di assenza, cerca di costruire un rapporto con le figlie ormai grandi prima che sia troppo tardi; ma è anche la storia di due sorelle che vedono il loro mondo crollare per l’imminente partenza dal Perù agli Stati Uniti, la storia di una famiglia che si separa; ed è anche una storia di migrazione, la storia di chi lascia un Paese in crisi abbandonando affetti e relazioni. ‘Reinas’ è la storia di Carlos e delle sue fantasiose bugie per giustificare la sua assenza, delle sue due “regine” (le ‘reinas’ del titolo) Lucía e Aurora, della loro madre Elena. Ed è anche la storia di Klaudia Reynicke, regista ticinese (è qui che ha iniziato a lavorare nel cinema) nata in Perù, Paese che ha lasciato quando aveva poco meno di dieci anni.

Dopo un più che fortunato giro di festival – iniziato con il Sundance e proseguito con la Berlinale e Locarno, dove ha vinto il Premio del pubblico di Piazza Grande – ‘Reinas’ è arrivato, sottotitolato in italiano, nelle sale della Svizzera italiana. «Ho ricreato una storia molto vicina alla mia storia» ci ha spiegato la regista nei giorni della prima svizzera del film. «La parte più vera sono i sentimenti, perché su quelli non si può mentire. E il rapporto con il padre».

Suo padre era come il Carlos del film?

Mio padre biologico praticamente non lo conosco: è andato via quando avevo credo sei anni per andare negli Stati Uniti: non l’ho più rivisto fino a che non ho avuto 19 anni e siamo andati anche noi in America. Sono quindi cresciuta senza questa figura paterna, ma da quello che mi ricordo lui era come Carlos, era una persona molto creativa – non parliamo delle stesse bugie che troviamo nel film, ma il fascino che sanno esercitare è quello. Sa come farsi volere bene, anche se non sa cosa vuol dire essere un padre.

Il film finisce con la famiglia che si separa, ma era iniziato con una famiglia di fatto inesistente, o almeno senza padre.

Per me era importante raccontare non tanto la storia di una famiglia che si separa, ma quella di una famiglia che si mette insieme sapendo che ci sarà una fine. Cosa succede sapendo che ci sarà una fine? Quello che succede è che si crea una relazione tra Carlos e le sue figlie, cosa che probabilmente non sarebbe successa se avessero continuato a vivere lì. La partenza porta a una presa di coscienza da parte del padre, ma non solo: anche per la madre e per le bambine sapere che tutto sta per finire cambia le cose.

Alla Berlinale ‘Reinas’ era nella sezione Generation. È un film pensato anche per un pubblico giovane?

Lo speravo perché non lo sai mai fino alla fine. Io prima di tutto faccio film che ho bisogno di fare – poi, quando hai scoperto che ti danno i soldi, che riesci a girare, che il montaggio è andato bene… alla fine scopri se quello che avevi in testa va bene per il pubblico, a quale tipo di pubblico il film piace. Al Sundance ero molto felice di vedere in sala non soltanto le comunità latino-americane, ma anche altri gruppi e di tutte le età. Poi a Berlino, come detto, siamo finiti nella sezione Generation che è pensata per i giovani e quindi alla proiezione c’erano tanti giovani. E lì il momento più bello è stato alla fine, quando Abril (Gjurinovic, ndr) e Luana (Vega, ndr), le protagonista Lucía e Aurora, hanno dovuto fermarsi perché c’era una fila di giovani che aspettavano l’autografo. Al cinema non capita mai, che ti chiedano l’autografo, a meno che tu non sia Tom Cruise…

Senza entrare in dettagli, ma nel film ci sono alcuni momenti – ad esempio quando i militari fermano Lucía e Aurora – in cui la situazione potrebbe precipitare e diventare un film non più adatto ai giovani.

Sì, è vero. Durante la scrittura del film ci siamo chiesti fin dove andare avanti, fino a che punto arrivare con il dramma legato al contesto politico. Ma abbiamo deciso che al centro del film doveva esserci questa famiglia, non il racconto del Perù degli anni Novanta. Quei momenti servono a costruire l’arco narrativo delle protagoniste, il loro realizzare che c’è una realtà molto diversa dal semplice divertimento che loro conoscono come ragazzine, anche con l’arrivo di questo padre molto brillante e spassoso. L’incontro con i militari è il momento in cui anche loro vedono quello che gli adulti già vedono e conoscono, ma senza spingerci oltre anche per evitare di cadere negli stereotipici del genere, con il pubblico che sa già cosa accade quando i militari fermano due ragazzine.

Avete quindi pensato di dare più spazio alla crisi peruviana di quegli anni, insomma di rendere il film più politico?

Fin dall’inizio non volevo fare un film politico ma il film di una famiglia in un contesto politico. Perché è in quel contesto che sono nata e sono cresciuta fino a dieci anni: la politica, per me, è parte della vita di tutte le persone, di tutti i cittadini di questo mondo. Abbiamo il dovere di capire cosa è la politica, cosa è la società, ma non volevo fare un film che parlasse esplicitamente di questo.