laR+ Venezia 81

Nel giorno di mercato, al Lido langue il cinema

Fuga da ‘Queer’ di Guadagnino, snobbato ‘Harvest’ di Tsangari. Duro du Welz sul mostro di Marcinelle. Fuori concorso, vibra il Brasile di Costa

Da ‘Apocalypse in the Tropics’ di Petra Costa, ritratto di un Paese alla deriva
4 settembre 2024
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Chi ha memoria della Mostra lo sa: il martedì è solitamente il giorno più debole del Festival che – conclusa con i botti la prima settimana – si trova a confrontarsi con il TIFF ’24, il Festival di Toronto che parte il 5 settembre con una marea di titoli, di cui tanti visti a Venezia. Non che Toronto si schieri contro Venezia, ma di sicuro molte cinematografie trovano là maggior comprensione piuttosto che in un Lido racchiuso in sé stesso.

Mal recitato, peggio diretto

In Concorso troviamo due opere, l’attesissimo ‘Queer’ di Luca Guadagnino e ‘Harvest’ di Athina Rachel Tsangari, due film legati a doppio filo da un’idea autoriale che viene sbattuta subito nel fango di io irrealizzati. Luca Guadagnino si affida a un romanzo dal titolo omonimo firmato da William S. Burroughs, e come personaggio principale sceglie l’ex 007 Daniel Craig. L’attore impersona, con qualche apprensione di troppo, William Lee, un americano sulla soglia dei cinquanta espatriato a Città del Messico per non essere arrestato nel suo paese come gay sempre arrapato e consumatore accanito delle più diverse droghe. Qui conosce un più giovane Eugene Allerton (un noioso Drew Starkey), giovane studente appena arrivato in città.

Dopo estenuanti mezz'ore di caccia, finalmente Lee riesce a concupire il ragazzo e il soft porno senza brio si sposta nel Centro America alla ricerca di una nuova droga capace, come l’assenzio, di destabilizzare la memoria, nell’impossibile sapienza del conoscersi. Fuga dalla sala e contestazioni alla fine durante la presentazione stampa per un film mal recitato e peggio diretto.

Incompreso

Non molto di più ottiene, sempre in Concorso, ‘Harvest’ di Athina Rachel Tsangari, film che ha avuto un’emorragia di spettatori. Eppure l’idea non era male: rintracciare nella Gran Bretagna dell’epoca pre-shakespeariana l’inizio della tragedia determinata dal capitalismo. In un’immensa campagna scopriamo un piccolo villaggio condotto in maniera socialista dal proprietario che si avvale di un amico, Walter Thirsk, uomo di città datosi all’agricoltura; entrambi hanno perso le giovani mogli che celebrano in un vicino monumento. L’arrivo di un cugino del proprietario che ha ereditato il territorio sconvolge i ritmi del villaggio, al quale viene annunciato che il terreno da agricolo di sussistenza sarà trasformato in pascolo per pecore. I soprusi del cugino spingono gli abitanti alla rivolta prima e all’abbandono del villaggio poi: mentre tutto va in fiamme, resta da solo Walter Thirsk e semina il grano, ultimo atto di rivolta, verranno forse i pastori ma la terra è di chi la lavora. Il pubblico di Netflix ha lasciato il film girato in 16mm senza capire la forza del linguaggio, la profondità e la grana delle immagini, lontane da tutte quelle che si vedono stereotipate su internet e instagram.


Gheysens
Anthony Bajon in ‘Maldoror’ di Fabrice du Welz

Doloroso

Fuori concorso si è visto ‘Maldoror’ di Fabrice du Welz, un film che dolorosamente ci rimanda alle vicende legate a Marc Dutroux, il mostro di Marcinelle, difficile dire “l’uomo”, meglio “colui” che ha sequestrato e torturato sei ragazze dagli 8 ai 19 anni, abusando sessualmente di tutte loro. Solo due delle sue vittime, Sabine Dardenne e Laetitia Delhez, di 12 e 14 anni, riuscirono a sopravvivere alle sevizie; An Marchal ed Eefje Lambrecks, di 17 e 19 anni, vennero uccise, mentre Julie Lejeune e Melissa Russo, entrambe di 8 anni, furono lasciate morire di stenti. Il film ha come protagonista un giovane poliziotto che cerca di trovare ancora vive le vittime del mostro, ma viene ostacolato dai suoi superiori, che difendono un mondo di politici pedofili che godettero dei video prodotti dal mostro, con le sue vittime protagoniste. Un film interessante e duro che scorre veloce e dettato da mani sicure.

Quando finisce una democrazia

Sempre fuori concorso è ‘2073’ di Asif Kapadia, film sul cambiamento climatico e sulle guerre che infiammano il nostro pianeta. Il regista pensa a come saranno nel 2073 le generazioni di adesso e future. Un mondo è controllato da ultraliberisti, dittatori e tecnogeek. Non c’è dissenso, non c’è libertà. Tutti sono monitorati. E l’ambiente è quello di una guerra atomica planetaria. Forse troppo prevedibile e visivamente troppo visto, il film scorre senza infamia e senza lode.

Ben più pregnante ed emozionante, sempre fuori concorso, è ‘Apocalypse in the Tropics’ di Petra Costa, un viaggio attraverso i simboli e i misteri del cristianesimo di estrema destra e, allo stesso tempo, nel disordine politico nel quale è sprofondato il Brasile. Un film inquietante che si interroga su quando finisce una democrazia e inizia una teocrazia. Un film che con rara sincerità giornalistica segue il ruolo centrale svolto dal movimento evangelico nei recenti disordini politici in Brasile, come l’assalto alla sede del parlamento a Brasilia dopo la mancata rielezione di Bolsonaro, mostrando anche la teologia apocalittica che guida i suoi protagonisti. La regista traccia il ritratto di un paese alla deriva per colpa di un populismo fideista che ne condiziona ogni possibile futuro democratico. Questo è cinema che vibra.