Il bello della ‘Venice Immersive’, i Leoni mancati, il mancato rispetto a Tim Burton e Todd Phillips e tutti i film che ci portiamo via da Venezia 81
Riavvolgiamo il film. Tutto è cominciato con la festa di Variety, ‘Fantaisie’, sulla incredibile terrazza del Danieli, e si vedeva il Lido lontano. Eppure, vista la presenza del direttore della Mostra e di una parte della Giuria, già si pregustava un sapore di Cinema che è durato per due lunghe settimane. La prima colma di dive e divi, la seconda più legata al film come unico divo. Era naturale, visto che nella seconda è cominciato il contemporaneo Festival di Toronto, più facile da raggiungere per il mondo hollywoodiano. Così anche la presenza del pubblico e dei giornalisti è scemata, con proiezioni serali pressoché vuote. Un fatto che dovrebbe far pensare chi programma il più longevo dei festival internazionali.
C’è da dire che in una cosa la Mostra veneziana è cresciuta a livello mondiale, ed è ‘Venice Immersive’, la sezione di ‘Extended Reality’ dedicata ai media immersivi, un vero tuffo nella nuova epoca dell’immagine e dell’immaginario. Ci aveva provato Cannes qualche anno fa, poi il mercato ha frenato questa apertura e Venezia ha preso al balzo l’occasione, arrivando a essere nel giro di pochi anni all’avanguardia per i nuovi progetti, ben 63 in totale, e con i temi più svariati. Tra tanti ci ha colpito l’australiano ‘Turbulence: jamais vu’ di Ben Joseph Andrews ed Emma Roberts. Andrews soffre di emicrania vestibolare, una patologia cronica che influenza la percezione del movimento e dell’equilibrio. Attraverso questo lavoro ci porta a vivere dentro la bellezza del suo dolore. Una riflessione ci pare opportuna: lo sviluppo di questi nuovi modi dell’immagine passa attraverso un mercato dei visori aperto ai minori di dodici anni, cosa giustamente oggi vietata ma facilmente elusa dai genitori.
Per quel che riguarda i film, non sarà una Mostra da ricordare tra le migliori. In generale, è mancato un equilibrio tra la forte presenza mediatica dei tappeti rossi e un’altrettanta presenza dei media su molti film che mancano di un facile appeal divistico. Mostra che poi paga il basso livello del cinema italiano, la sua provincialità, il suo televisivo sistema divistico, un cinema che è succube, anche a livello di scuole, del modello commerciale hollywoodiano, la sua mancanza di originalità. E in confronto pare ancor più chiaro con quello francese, che anche in questa mostra ha decisamente segnato la sua originalità narrativa e una qualità di recitazione di gran rilievo. Pensiamo a film che si sono fatti amare come ‘Jouer avec le feu’ delle sorelle Delphine e Muriel Coulin, con un immenso Vincent Lindon, a ‘Trois amies’ di Emmanuel Mouret, con un trio d’attrici d’applausi, Camille Cottin, Sara Forestier e India Hair. Pensiamo anche al non compreso ‘Leurs enfants après eux’ dei gemelli Zoran e Ludovic Boukherma, un film generazionale che mette a confronto le diversità di varie identità.
Sempre francese uno dei film che il tam tam del pubblico ha celebrato subito come uno dei migliori dell’intera programmazione, ‘Le mohican’ di Frédéric Farrucci con un bravissimo Alexis Manenti, che qui era presente anche nel thriller sulla pedopornografia ‘Maldoror’, fuori concorso, di Fabrice du Welz, dove fa da spalla a Anthony Bajon. Tra i film che ci porteremo via c’è ‘Beetlejuice Beetlejuice’ di Tim Burton che ha aperto le danze e anche le polemiche, perché i ricordi fanno male e se molti pensano, come hanno detto e scritto, che il primo ‘Beetlejuice’ del 1988 – presentato in Italia come ‘Spiritello porcello’ – era meglio, non tengono conto degli anni passati e di come è cambiato il mondo. E che un autore non è un automa e avere 36 anni di più ti porta a fare altre cose, diverse magari. È quello che è successo anche per Todd Phillips, dopo la presentazione di ‘Joker: folie à deux’, quando sono apparse al Lido le scritte “Ridateci ‘Joker’”: ma che senso ha? Anche il clima cambia, immaginarsi le idee di un regista autore.
Altri film che porteremo con noi sono ‘April’ di Dea K’ulumbegashvili. Quel ritratto di ginecologa ha regalato la speranza della vita, anche se di aborti si parlava. ‘The Order’ di Justin Kurzel sul fanatismo nazista negli Usa, ‘The Brutalist’ di Brady Corbet sulla finzione del racconto, sulla distruzione dell’arte, ‘Ainda estou aqui’ di Walter Salles, sulla tragedia delle dittature e sulla forza delle donne con una magnifica Fernanda Torres, e ‘Qing Chun: Gui’ (Youth: Homecoming) di Wang Bing, che ha completato la nostra visione di questo film in tre parti. Una parola la spendiamo per Angelina Jolie accusata da molti di non essere la Callas in ‘Maria’ di Pablo Larraín: non era il suo ritratto, ma è stata bravissima a incarnarne lo spirito, e il cinema è anche questo, non è un museo delle cere. Ed ecco che con i Leoni tutto va agli archivi. Anzi, molti film troveranno la strada delle poche sale restanti o delle piattaforme, dove sono destinati i serial cui la Mostra ha dato un bello spazio a cominciare da ‘Disclaimer’ di Alfonso Cuaron a ‘M. - Il figlio del secolo’ di Joe Wright, subito accusato di filo fascismo e di un piatto servito a chi governa oggi in Italia. Il cinema serve anche a discutere, pensiamo a ‘Al klavim veanashim’ (Di uomini e cani) di Dani Rosenberg, visto negli ultimi giorni in Orizzonti, film in cui il regista italiano attacca con barbara forza quelli che chiama “assassini palestinesi”, quelli che hanno compiuto il massacro del 7 ottobre 2023. Il pubblico è restato letteralmente impietrito di fronte alla violenza del dettato che non accetta risposta.
Anche questa è la Mostra. Non solo pacifici tappeti rossi. Il cinema fa male, qualche volta. E fa riflettere. Sigmund Freud in una lettera ad Albert Einstein scriveva, come ha ricordato Amos Gitai nel suo ‘Why War’, fuori concorso: “Possiamo dire a noi stessi che tutto ciò che funziona per lo sviluppo della cultura, funziona contro la guerra”. Un festival del cinema dunque può funzionare contro la guerra. Anche questa mostra del cinema.