Parola di regista e protagonista di una maionese impazzita con gli ingredienti giusti che però non si amalgamano
“Non avrebbe avuto senso adattare William Burroughs in un dramma in costume. E poi, quanto sono noiosi i drammi in costume?”. In Queer, attesissimo in Concorso a Venezia 81, Luca Guadagnino cerca di trasfondere la linfa lisergica e febbrile del romanzo di Borroughs in una delle sue storie di autoaffermazione e accettazione di sé. Accostamento sulla carta azzeccato – cos’è in fondo la psichedelia, se non un tentativo di conoscersi e scendere meglio a patti con sé stessi? – che sullo schermo si rivela invece insidiosa per colpa di quella che potremmo definire una sfumatura nella traduzione. L’identità in Guadagnino coincide sempre col desiderio (competitivo in ‘Challengers’, cannibalistico in ‘Bones And All’, sessuale in ‘Chiamami col tuo nome’, e così via a ritroso), mentre nel libro di Burroughs, classico romanzo da fattoni degli anni Settanta e Ottanta con in più una macabra vena di disperazione autobiografica, il desiderio è semmai trascendenza, cancellazione dell'identità.
Il risultato è una maionese impazzita, con gli ingredienti giusti che però non si amalgamano e non si emulsionano. Lo sgretolamento dell'identità del protagonista William Lee (Daniel Craig), che è anche sgretolamento semantico del termine “queer”, si traduce in una serie di visioni più o meno azzeccate sul piano cinematografico, ma sconnesse dal nucleo emotivo del film. Queer alla proiezione per i giornalisti – per verità mai teneri con gli italiani – prende applausi e qualche fischio, ma Guadagnino in sala stampa non sembra turbato “Fare questo film per me è stato un processo particolarmente semplice e lineare. Divertente, piacevole e a volte malinconico, con una compagnia meravigliosa. A volte difficile, perché abbiamo ricreato questo mondo tutto a Cinecittà”.
Queer si svolge in una Città del Messico tutta pittorica e mentale, fatta di plastici e modellini, dove il protagonista Lee (un alter ego di Burroughs) vive da esule di lusso, fuori dagli Stati Uniti per ragioni giudiziarie, e si consuma tra droghe e libidine omoerotica finché non incontra Eugene Allerton (Drew Starkey), gelido e irresistibile, con cui inizia una relazione ambivalente tra convenienza e affetto, e un viaggio in Sudamerica in cerca di una radice dalle proprietà “telepatiche”, lo yahe/ayuhasca.
“Io vado a letto presto, non ho mai fumato una sigaretta in vita mia e non ho mai preso droghe” racconta Guadagnino “ma Lee mi affascina perché credo che il compito di un regista, di ogni artista, sia cercare l'umanità nei luoghi più oscuri della nostra vita. C‘è un certo candore, una certa purezza, nel modo che Lee ha di essere un tossicodipendente. E nella sua solitudine. Questa storia ruota intorno a una domanda che mi ha sempre affascinato: chi siamo quando siamo da soli?”. La domanda successiva strappa una risata: perché Daniel Craig? E potrà mai esserci un James Bond Gay? Guadagnino risponde a tono che i veri desideri di James Bond, in fondo, non li sapremo mai. Daniel Craig fa il sorriso paziente di chi si sta chiedendo se prima o poi, nella vita, gli capiterà un'intervista in cui non vengano pronunciate le parole “James Bond” e spiega: “Io ho detto subito di sì a questo progetto soprattutto perché volevo lavorare con Luca, che ho conosciuto vent'anni fa su un set. Questi sono i film che mi piace fare e guardare: sfidanti, ma spero anche molto accessibili”.
Stranamente si fanno pochissime domande su quella queerness che dà titolo e senso al film, salvo che sulle scene di sesso tra Craig e Starkey. “Non c’è davvero niente di intimo nel filmare una scena di sesso” spiega Craig, “sei in una stanza piena di persone che ti guardano”. Starkey aggiunge che: “è come una danza. Io non sono un ballerino, e di sicuro non lo è Daniel. Ma insieme abbiamo fatto progressi”. L'ultima parola a Guadagnino: “La prima volta che ci siamo sentiti, Daniel è stato adamantino sul fatto che questa era una storia d’amore, su cosa vuol dire amare e non amare, essere connessi e disconnessi. Lo abbiamo scoperto lavorando tutti insieme, è stata una cosa molto queer da fare”.
Drakoulidis
‘Queer’