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Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto

Dalla morte del bracciante Nikola Hadziev alla dura vita nell'alpe: intervista al regista zurighese Aldo Gugolz

9 giugno 2021
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38 anni, 50 capre, 8 mucche, un figlio in arrivo. Fabiano, e la sua compagna Eva, vivono in un alpe della Val Onsernone e se il film del cienasta zurighese Aldo Gugolz presenta suggestive inquadrature delle montagne e degli animali, il suo ‘Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto’ – adesso nelle sale della Svizzera italiana – è molto lontano dall’immaginario di Heidi. Le difficoltà nel mandare avanti l’alpe, nel vendere il formaggio, e sullo sfondo una tragedia avvenuta l’anno prima, con la morte del bracciante Nikola Hadziev che lavorava proprio per Fabiano. Ma, come ci spiega lo stesso regista, il film non è la ricostruzione di un caso criminale che costituisce quasi un controcanto, affidato a notiziari e articoli di giornali, della storia di un contadino e del suo difficile rapporto con la vita moderna.

‘Anche stanotte le mucche danzeranno sul tetto’: il titolo fa riferimento a un sogno del protagonista. Perché, di fronte a tanti fatti drammatici, un titolo su un sogno?

Ho pensato che il titolo fosse un simbolo della vita di Fabiano, una vita in cui si è sempre nel punto in cui può succedere qualcosa. Il suo sogno mi è sembrato una bella immagine che io ho messo in tedesco: ‘Kühe auf dem Dach’. Ma il mio corproduttore ticinese, Nicola Bernasconi, ha detto che ‘Mucche sul tetto’ non suona bene, in italiano, e ha creato questo titolo più lungo, più poetico molto bello. All’inizio pensavo fosse un titolo troppo lungo, troppo perché uno riesca a ricordarlo, però adesso vedo che funziona bene.
Non credo che quel sogno sia dovuto al whisky, come Fabiano dice nel film, perché è una cosa più ampia: è la situazione che abbiamo trovato lì, al limite, estrema, non tipica per la Svizzera.

Una vita alpestre molto lontana dall’immaginario collettivo di Heidi. Come si è sviluppato questo film? Da quale idea è partito?

Quell’alpe la conosco da anni, l’ho scoperta quasi per caso nell’89, durante un gita. Lì abbiamo conosciuto Giorgio, l’alpigiano che c’era prima di Fabiano. In quel periodo si era liberato della dipendenza dall’eroina, andando sull’alpe con una bottiglia di metadone. Non ha più avuto bisogno del “mondo di giù” e anche io ho vissuto dei giorni molto belli all’alpe. Abbiamo anche fatto alcune riprese in super8, ma non è stato possibile utilizzarle nel film.
Poi nell’agosto del 2016 sono tornato lì con la mia famiglia e abbiamo passato una notte lì all’alpe. Abbiamo trovato un gruppo di uomini: uno dalla Serbia, un ticinese, uno dalla Svizzera tedesca, un altro tipo che si è tenuto in disparte… abbiamo pensato che sarebbe stato un bel setting per un film. Perché la gente viene qui a lavorare per un’estate, che cosa lasciano nel luogo da dove vengono?
Questo come detto ad agosto: il gennaio seguente con Susanne Schüle abbiamo deciso che quel film lo si poteva fare e abbiamo chiamato Fabiano, scoprendo tutto quello che era successo.

La decisione precede dunque la scomparsa di Nikola Hadziev?

Sì, non sapevamo niente: quando siamo stati lì, in agosto, lui era già morto, i suoi resti erano lì vicino ma non lo sapevamo.
Non era quello il film che volevamo fare: noi volevamo raccontare la vita di questi alpigiani ed è cambiato tutto, il film è diventato quasi un esperimento. Non sapevamo dove saremmo andati a finire, ma sentivo che quello è un ambiente molto forte in cui ci sono storie che toccano l’essenza della vita, incluse la morte e la nascita. C’è una presenza molto forte della natura e noi abbiamo cercato di fare un film su una giovane famiglia che vuole vivere nella natura, con una donna forte, Eva, che desidera fortemente questa vita. Ancora adesso sono lì, i figli ora sono due e Fabiano ed Eva pensano a come migliorare la vita della comunità.

La morte di Nikola Hadziev andava comunque inserita nel film. Come?

È stato difficile, perché il film che racconta la vita di Nikola Hadziev è già stato fatto, e molto bene, dalla Rsi, da Falò. Mi sono chiesto se avrei dovuto fare anch’io quel lavoro, andare in Macedonia, spiegare chi era Nikola Hadziev, perché è venuto in Svizzera. Ma abbiamo deciso di concentrarci su Fabiano, sulla sua vita, ma come inserire questi eventi drammatici in un documentario che non ha un commento, non c’è nessuno che spiega cosa è successo ma tutto è raccontato dagli stessi protagonisti.
In questo c’è stato un grande lavoro di montaggio e devo ringraziare Samir Samperisi: ha guardato tutto il girato, l’ha praticamente mangiato e digerito riuscendo a fare un film che è comprensibile senza essere troppo esplicativo, senza fare un lavoro giornalistico.

I protagonisti sono Fabiano ed Eva che, se ho ben capito, ha conosciuto nell’estate del 2016. Le riprese quanto sono durate?

Eva l’ho conosciuta nel 2017, quando abbiamo iniziato a girare: lei non c’era, l’estate prima. Abbiamo iniziato a febbraio del 2017 e finito nel maggio del 2019, per un totale di 25 giorni.
Siamo stati molto fortunati, perché abbiamo sempre trovato i momenti giusti per fare le riprese, trovandoci lì ad esempio quando sono venuti i giornalisti. Quando si ha un budget limitato, da prodotto televisivo più che cinematografico, non è possibile tenere conto di queste cose e va molto a fortune.

Budget televisivo ma il documentario è pensato per il cinema.

Sì, abbiamo sempre pensato al cinema, per il suono al quale abbiamo dato molta importanza, per la fotografia. Susanne Schüle ha realizzato delle bellissime immagini, facendo sempre le riprese da vicino, ma alla fine neanche si faceva caso, alla camera. Siamo diventati parte della vita all’alpe, una vita che per loro è molto lontana da quella “di giù”. Nel film lo si vede quando, dopo la nascita del bambino, sono a Locarno e lui non si sente bene giù.

Ma la loro è una fuga dalla società o è più la società che li respinge?

È una questione di eredità: lui è nato lì ed è arrivato a un momento della sua vita in cui non può più scegliere liberamente.
Credo sia un aspetto centrale del film, questo. A vent’anni puoi andare ovunque, percorrere tutte le strade. Poi hai preso delle decisioni, sei finito in alcuni posti puoi muoverti ma fino a un certo punto, hai meno possibilità, difficilmente puoi cambiare vita. È l’eredità: non solo l’eredità materiale, ma la mentalità, quell’essere un po’ fuori dalla società…

Per il pubblico ticinese è un film “di casa”. Altrove come è stato accolto il film?

Come se non fosse un film svizzero, ma arrivasse dai Balcani o da qualche Paese dell’est. Penso tuttavia che agli spettatori, dopo un po’, non interessi da dove arriva il film: non è importante che ci si trovi in una valle del Ticino o altrove, è importante sentire delle cose della morte, della vita, delle difficoltà di vivere nella natura.