laR+ Locarno 74

Tutti amano Dario Argento: 'Vivo una sorta di delirio'

Retrospettiva a New York, rassegna a Torino, il Lifetime Achievement Award di Piazza Grande consegnatogli da John Landis: intervista esclusiva al re del brivido

Premiazione horror: a destra, John Landis consegna l'Award a Dario Argento (Keystone)
14 agosto 2021
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Prima che l’intervista cominci, è al telefono con Gaspar Noé, che lo ha voluto come attore in ‘Vortex’, uno dei più apprezzati episodi del Locarno74 giunto ai titoli di coda; quando tutto sarà finito, chiederà se John Landis è già partito. E se l’americano fosse ancora nello stesso hotel in cui incontriamo Dario Argento, il Belvedere di Locarno, almeno per un giorno, si potrebbe pure ridenominare Hotel dell’orrore. Cinematografico, s’intende.

Il re del brivido, o qualsiasi altro appellativo si voglia usare, torna al Festival a intervalli regolari. «La prima volta fu il 1998, se non mi sbaglio», dice Argento. «M’invitò Irene Bignardi per un incontro sul cinema italiano, ma sono tornato in tante altre occasioni». Ricorda la restrospettiva su Jaques Tourneur del 2017 – «Uno dei miei registi favoriti» – ma Locarno lo aveva abbracciato anche nel 2016 in occasione della proiezione di ‘Suspiria’ (del remake di Guadagnino non chiederemo, visto che non gli è piaciuto e che il fatto di non essere stato interpellato non glie è andato giù) e, ancor prima, nel 2014 per i nove corti televisivi della Rai di tanto tempo fa, andati a Locarno sotto il titolo – pertinente – di ‘Gli incubi di Dario Argento.

L’incontro esclusivo de laRegione con Dario Argento si svolge nelle ore che precedono la consegna del Lifetime Achievement Award al maestro, ultima sopresa del Festival che nel pomeriggio ha incoronato il regista thailandese Ewin. L’Award al regista romano mette insieme il tributo all’opera omnia e la sua interpretazione nel film di Noé

‘Lifetime’ è una definizione precisa, maestro.

Sì, immagino si riferisca alla mia carriera di regista e autore cinematografico, un riconoscimento che credo vada al mio impegno nell’essere un professionista serio, qualità che mi devo riconoscere, serio e impegnato nel fare il mio lavoro al meglio. Questo mi ha portato molti premi, molti riconoscimenti, anche se questo mio modo di fare cinema non mi ha portato grande felicità.

In che senso non si sente felice?

Non mi sento felice perché se devo dire che faccio un film e per questo sono felice e mi diverto, non è vero. Non mi diverto per niente, non sono assolutamente felice perché fare un film è un’impresa titanica, laddove venga fatto con impegno, cognizione, cercando di dare il meglio di se stessi. Quando sento registi dire “Mi sono divertito un mondo a fare questo film’”, temo che il film possa essere una stupidaggine, se non inutile, perché non ci si può divertire. Fare un film come regista è una delle imprese più complesse che esistano, molto più che fare il politico, il presidente di una società o altro. Perché bisogna inventare, innovare, sempre, cercando di dare il massimo di sé.

Non è felice, ma fa comunque il mestiere che le piace. Questo possiamo dirlo?

Faccio il mestiere che ho voluto fare da un determinato momento in poi della mia vita. Prima m’interessava molto scrivere, lavoravo come giornalista, ho lavorato come sceneggiatore, ho scritto insieme a Bernardo Bertolucci ‘C’era una volta il West’, ho lavorato con Sergio Leone…

…ma non le bastava…

Lo facevo perché in quel momento mi piaceva, convinto addirittura che sarebbe stato un lavoro che avrei fatto per sempre. Poi, da giornalista, sono diventato critico cinematografico, e da critico cinematografico sono diventato saggista di cinema, e poi è arrivato il cinema fatto in prima persona.

Il critico cinematografico ha un riferimento immediato con Locarno 74 e ‘Vortex’, film nel quale lei interpreta proprio il ruolo di un critico cinematografico. Slegato dalla storia, rimettendosi quei panni, come recensirebbe il cinema odierno? 

Il cinema cambia, è mutevole, è come un serpente che muta la sua pelle. Non si può giudicare il cinema di oggi come si giudicava quello di dieci, quindici, venti anni fa. Anche io, d’altra parte, cambio pelle come il cinema, m’invento nuove cose, nuovi temi, nuove strutture da raccontare.

Restando a ‘Vortex’, e alla sua apprezzatissima interpretazione. Non si tratta di un cammeo, non è Dario Argento che ‘fa’ Dario Argento, ma si tratta di un ruolo. Lei che conosce bene la paura, quanta ne ha avuta a esordire come attore protagonista?

Per questo devo molto a Gaspar Noé che mi ha molto incoraggiato, che ha insistito molto affinché facessi l’attore. All’inizio ho rifiutato, ma la paura non c’entra. C’entra che non sono un attore, sono un regista, sono un regista di attori, questo ho detto a Gaspar. Poi lui ha pronunciato una specie di frase magica: “Vedi Dario, questo film non ha un copione, è totalmente improvvisato, e dovete improvvisarlo voi”, e questo mi ha molto interessato, perché mi ha ricordato il cinema neorealista italiano, il cinema di De Sica, di Rossellini, il cinema in cui la gente veniva presa dalla strada, improvvisava, parlava dialetti. Oggi, dopo cinquant’anni, non è la stessa cosa fare un film di tipo neorealista, però qualcosa Gaspar ha preso da quel cinema, perché ‘Vortex’ aveva un copione di sole dodici pagine dentro le quali venivano descritte a grandi linee le scene. Dodici pagine per un film che, alla fine, dura quasi due ore e mezza sono davvero poche. Così abbiamo improvvisato, ed è stato molto affascinante. Anche parlare in una lingua non mia mi ha molto interessato.

‘Vortex’ è anche un film sulla vecchiaia…

…sì, ma io mi sento come fossi al primo film, perché il cinema non si deve necessariamente fare con la forza dei muscoli, ma con la fantasia, con il cervello. E il cervello non appassisce con gli anni, anzi, negli anni s’arricchisce di esperienze, incontri, visioni, letture.

John Landis ha ricordato il suo essere stato un tuttofare sul set di ‘C’era una volta in il West’, e dell’orgoglio di avere lavorato, da tuttofare, in una pellicola che portava anche la firma del re del brivido. Landis ha anche parlato del boom del genere horror. C’è qualche titolo, oggi, che riesce ancora a farla spaventare?

No. Se parliamo del cinema horror importante, quello che un po’ facevo io e un po’ Bava e alcuni americani molto bene, è un discorso. Ora gli americani hanno smesso di fare buon horror, ne fanno di pasticciati, senza né capo né coda, scopiazzando gli uni dagli altri. Ora l’horror americano è molto scadente. Quello interessante si fa in parte in Francia, in parte in Spagna e in parte in estremo oriente, Sud Corea, Giappone, anche in Thailandia. E non dimentichiamo il cinema horror messicano, Guillermo del Toro e altri registi molto affascinanti. 

Cito a caso. ‘Halloween’, 1978, inizia come ‘Profondo Rosso’, 1975, e il tema della colonna sonora ha gli stessi tempi dispari di quello dei Goblin. Ci siamo appassionati ai teenage horror americani per poi accorgerci delle fonti, più che ispiratrici. Ci è voluto Tarantino per rimettere Dario Argento al suo posto…

Sì, perché il cinema horror è stato considerato a lungo un cinema di serie B, qualcosa di facile, ma nient’altro che un luogo comune, perché il film horror è molto difficile. È soltanto negli ultimi anni che è stato veramente apprezzato. Si guardi a Cannes, a ‘Titane’ di Julia Ducournau, che è un film horror, si guardi a tutti i festival che di film horror sono zeppi. L’horror ha una facoltà, quella di risvegliare certe nostre sensazioni, certi nostri sentimenti sopiti, che invece oggi escono arricchiti.

C’entra il momento storico, come ha detto Landis giorni fa?

Questo francamente non saprei spiegarlo, perché non sono un sociologo, però è così e non è che l’apprezzamento sia cosa degli ultimi tempi. È così da almeno una buona ventina d’anni. Me ne accorgo da quando vado negli Stati Uniti per le presentazioni dei miei film, e mi trovo investito da valanghe di giovanissimi affascinati da questo genere. A ottobre, il Lincoln Center di New York ospiterà per un mese una rassegna di tutti i miei film, e io sarò presente in un paio di occasioni. In più, usciranno due libri, uno sul mio modo di fare il cinema e uno riepilogativo di tutti i miei film. Mi ritrovo in una sorta di delirio. A Torino, in settembre, un’altra rassegna, con discussioni, incontri. Sui miei film, per questa manifestazione, mi sono ritrovato a leggere contributi di William Friedkin, Banana Yoshimoto, lo stesso John Landis, John Carpenter, Bill Kauffman. È un momento molto importante della mia vita.

Per finire. Guardando all'intera sua produzione: un film sopravvalutato e uno sottovalutato?

Sottovalutato è stato senz’altro ‘Opera’, uno dei film più belli che ho fatto, sul quale mi sono impegnato moltissimo. Sopravvalutato, in verità, non saprei dire. Sento di essermi impegnato in tutti, di avere la coscienza pulita.