Culture e società

'Ero un picchiatore, ma non sono pentito'

A colloquio con Matt, che negli anni '80 menava come non ci fosse un domani, e con Manuela Mazzi che ne racconta la storia. Romanzata sì, ma è storia ticinese

‘Anni fa si menava un capannone intero, ma il giorno dopo nessuno scriveva niente sul giornale e nessuno si scandalizzava’ (foto: © Raffaella Tufano/Mauro Bonetti)
25 marzo 2021
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Ah, se soltanto i dentisti potessero parlare. Forse solo loro potrebbero raccontare meglio delle statistiche l’epopea dei picchiatori del Canton Ticino. Chi preferisse il mero dato storico può andare subito a pagina 251 del libro di cui scriviamo, all’appendice ‘Risse e scontri’, con l’esaustiva tabella riepilogativa delle bande attive nel Cantone dal 1980 al 1989 – il picco nel 1984 – con tanto di coefficiente di cattiveria: si va dalle carezze dei Mesoraca Boys e delle Giubbe di cuoio (coefficiente 2) all’ultraviolenza kubrikiana dei famigerati Giovani picchiatori di Losone (o Gpl, coefficiente 10 nonostante l’acronimo che sa di bombole da campeggio e preistoria dell'automobile ibrida). C’è poi la tabella eventi, catalogati come vini pregiati (‘Megarissa del Lido di Locarno’ dell’88, ‘Scorribanda di Brissago’ dell’89, ‘Zuffa al Cincillà’ dell’82…).

Il ‘Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta’ (Laurana Editore) non è un’analisi sociologica e non è un romanzo storico. Cioè: del problema si capisce il perché, ma dalla parte di chi il problema lo ha creato, con tutti gli annessi e connessi pulp che il cinema ci rende commestibili e la vita invece ci rende insopportabili. Il ‘Breve tratttato’ (abbreviamo) è «un non romanzo, o un romanzo non romanzesco», come lo descrive alla Regione la sua autrice Manuela Mazzi, giornalista caposervizio presso il settimanale ‘Azione’, già autrice di alcune opere narrative e responsabile di corsi e laboratori di scrittura creativa. Detto da altri – Ermanno Cavazzoni, scrittore e sceneggiatore italiano autore della postfazione – “è una cronaca del Paleolitico, come se il Paleolitico non fosse mai finito, ma vivesse latente e operante sotto la cosiddetta civiltà moderna”. Detto da altri ancora – Giulio Mozzi, editore e autore dell’introduzione – “il poema epico di una generazione che si è trovata nel disagio e che ha cercato di sopravvivere nell’unico modo che ha trovato disponibile: picchiando”. Riassunto in un solo vocabolo, “un bestiario”, con perle (un virgolettato che pare autentico) come “anni fa si menava un capannone intero, ma il giorno dopo nessuno scriveva niente sul giornale e nessuno si scandalizzava” (messaggio ricevuto).

Eufemismi

Lungo il ‘Breve trattato’, dalla corrispondenza con la realtà sulla quale, da un certo punto in avanti, si smette d’interrogarsi, sfilano eroi locali (si prendano “eroi” ed “epopea” e quanto di celebrativo arriverà in seguito come puri eufemismi) in giovane e giovanissima età nel pieno di sconvolgimenti ormonali più pericolosi della media degli sconvolgimenti ormonali, nell’atto d’intraprendere la carriera del picchiatore, o nel pieno di una già avviata. Con in primo piano Matt il pugile, detto Nitro – vedi intervista che segue – e un passo dietro Gerry detto Glicerina, pronti da mettere insieme a far reazione.

«Sei-sette anni fa mi scrisse un ex giovane picchiatore – racconta Mazzi – specificando che non era pentito, chiedendomi se fossi interessata a raccogliere la sua storia così come avevo fatto con un precedente libro, ‘Un gigolò in doppio petto’, la storia di un giovane gigolò ticinese che era rimasto incastrato in una rete di prostituzione in Ticino». Come diceva il comico, la domanda nasce spontanea: non si corre il rischio di esaltarne le gesta? Perché questo cantone, se si parla di menare le mani, un sua seppur breve Via Crucis ce l’ha. «Una delle cose che cerco di fare nella scrittura creativa – risponde l’autrice – è la sospensione totale del giudizio perché, diversamente, non è più letteratura. Non amo l’intento moralistico sebbene venti ragazzi che hanno picchiato un ragazzo a sangue a non moltissimi chilometri da qui solo pochi giorni fa non può che farmi effetto. Ma se m’infilo oggi in quella realtà, allora dovrei fare un discorso completamente diverso e non scriverei un romanzo. Qui, il discorso, cito Cavazzoni, diventa il “Paleolitico umano”. Qui diventano grandiose cose non particolarmente edificanti, anche perché inevitabilmente ironiche». Ironiche e gonfiate come «i racconti dei pescatori, per i quali il pesce non è mai di due centimetri, ma di un metro e venti».

‘Ogni decennio ha la sua violenza’

Mazzi, conscia dell’evidente impossibilità di tutti di non poter non sorridere alle gesta (altro eufemismo) dei picchiatori, è assai realista: «Mi hanno invitato a presentare il libro davanti a una quarta media e parlerò molto chiaramente con il docente: io non sono un’educatrice. Questa è la difficoltà di questo libro e ne sono consapevole, ma la letteratura si occupa anche di temi storici, e metterci dell’ironia è un po’ come sdrammatizzare». A proposito di sdrammatizzare: «Matt e un paio di suoi amici si sono riconosciuti, anche in quello che mi sono inventata». Da vedersi come apprezzamento: «Successe con un altro libro, in cui la protagonista era una donna della Valle Maggia che aveva due cani, coltivava canapa in casa e ammazzava galline nel giardinetto. Tutto inventato. Una persona della valle mi scrisse in privato dicendomi: “Io ho conosciuto questa famiglia, so dove abitano, sono proprio così!”. Ma è facile, il lettore accetta che gli si possa spostare leggermente la realtà, per prendere quel che gli serve».

Ci sono gli anni Ottanta nel ‘Breve trattato’, che per i giovani di oggi è «mitologia, quella che per noi sono stati i Sessanta», dice Mazzi. E guardando al decennio di giacche colorate con le spalline, capelli cotonati e scarpe da boscaioli assurte a status symbol, Mazza ci fa un sunto di violenza: «‘Rusty il selvaggio’, ‘I guerrieri della notte’, ‘I ragazzi della 56esima strada’, ‘Rambo’, ‘Rocky’, gli Schwarzenegger, gli Steven Seagal e i Van Damme. Oggi c’è violenza nei videogiochi. Ogni decennio ha la sua. Io ho ricordato questo perché, confrontandomi con il cliché della Svizzera, è difficile far passare, fuori dai nostri confini, l’idea che qui ci fossero dei picchiatori. L’editore Giulio Mozzi, quando ci confrontammo, mi chiese come sarebbe stato preso un libro così qui. Gli dovetti spiegare che queste cose accadevano veramente».

I racconti di Matt, per chi almeno un volta nella vita è stato braccato da una banda di picchiatori, producono un non irrilevante effetto amarcord. L’incontro con Matt alla ricerca dei suoi demoni è per noi l’incontro con i nostri. Vediamola da questo punto di vista: alla fine del ‘Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta’, conforta constatare che – devitalizzazione più, devitalizzazione meno – abbiamo ancora tutti quanti i denti in bocca.

Peccato solo che a qualcuno sia andata peggio.


Manuela Mazzi (Photo Ma.Ma)

Matt (quello vero)

‘Sono andato alla ricerca dei miei demoni’

«È un po’ strano. Leggendo il libro trovo affinità con qualche amico, poi invece mi accorgo che sono io. Manuela ha messo insieme sapientemente le cose reali con quelle inventate, intrecciando dei personaggi che sono esistiti davvero, ma con altri nomi». Matt – possiamo chiamarlo soltanto col suo nome d’arte – nel ‘Breve trattato’ rivede «alcuni compagni di battaglia e altri che si conoscevano più a margine, gente alla quale ogni tanto capitava di dar manforte in qualche scazzottata». Non fosse che è il nostro incubo peggiore di gioventù (non lui; quelli come lui), Matt – così ci viene detto di chiamarlo prima d’incontrarlo – non fa parte di chi ha totalmente rinnegato quegli Anni Ottanta di botte da orbi.

Matt. Possiamo dire che lei non fa parte dei pentiti?

Sì, sempre che s’interpreti il concetto di “non pentito” nella maniera giusta. Io ho lanciato la palla a Manuela diversi anni fa perché leggevo di persone che si sono anche buttate in politica, che un tratto erano diventati sostenitori della non violenza, che facevano addirittura campagna elettorale con la non violenza. Mi sono detto: ma se fino all’altro giorno hai fatto casini a destra e sinistra? Detto in parole povere, questo per me è paraculismo. Si tratta di persone che andavano a fare rissa allo stadio, cosa che io non ho mai fatto, perché non è mai stato nel mio interesse andare a picchiarmi per il puro gusto di esercitare violenza su qualcosa o qualcuno.

Rivendica quindi di aver menato soltanto per motivi validi. Si definirebbe un picchiatore idealista?

Sì, chiaramente è capitato anche di andare sopra le righe per l’aver bevuto troppo, magari il gruppetto ti scanzonava e scattava la scintilla e in un attimo c’erano venti persone che si menavano…

Quindi idealista fino a un certo punto. Ammette di avere fatto cazzate…

Sì, ma non era per il puro gusto di picchiare qualcuno. Io ero anche mingherlino e quando qualcuno sapeva che io picchiavo, i più robusti volevano fare gli spacconi e poi si accorgevano che non era così. Magrissimo, poi, lo sono stato sempre. E tutto in un momento, dall’essere sfottuto e non considerato mi si salutava ovunque, mi si offrivano passaggi in auto, mi si pagava da bere, tutti ci tenevano a far vedere che erano miei amici e io mi dicevo che la gente era veramente suonata.

Ma una soluzione alternativa al menare per ottenere rispetto non l’ha mai valutata?

Sicuramente c’era, ma io sono sempre stato scherzato e sfottuto. Le spiego. La mia reazione inizia un po’ più tardi rispetto a quanto si dice nel romanzo. Essendo svizzero-tedesco in Ticino, ero il zucchino di turno, mi si stuzzicava spesso. Io stavo molto tempo per i fatti miei, potevo passare anche pomeriggi interi in casa ad ascoltare musica. Anche nel contesto scolastico, chi faceva gruppo mi prendeva in giro. Una sera mi hanno stuzzicato, uno mi ha preso da dietro per il collo, altri mi canzonavano in faccia e ho pensato di fare come nei film: mi sono girato, ho piantato un pugno, ha funzionato e da quel momento mi sono accorto che la gente stava alla larga, mi rispettava. Lo so che è brutto da dire, ma è stato effettivamente così.

Nei suoi momenti meno idealistici, definiamoli così, lei ci pensa ogni tanto a chi si è fatto male e non c’entrava niente?

Qualcuno che non c’entrasse completamente niente non è quasi mai successo, e se è successo potrei essere stato annebbiato dall’alcol. Durante i pestaggi di massa meni a destra e sinistra e non guardi proprio dove stai picchiando. È capitato anche che durante un pestaggio mi arrivasse da dietro, con altre intenzioni, un amico che non ho riconosciuto: ho pensato che fosse qualcuno con intenzioni ostili, gli ho tirato dritto, gli ho rotto il naso. Quella notte sono finito in ospedale e il primo che è venuto a trovarmi è stato lui. Confesso che mi sono un pochino vergognato.

Lei è padre di famiglia. Che insegnamenti di vita dà ai suoi figli? Il suo passato ritorna o ha imparato la tolleranza?

La tolleranza è arrivata. La mia bimba è stata bullizzata nel contesto scolastico. Fosse stato per me le avrei detto: “Dagliele indietro, e di santa ragione”. Chiaramente non l’ho fatto. Ho parlato con la scuola, ho contattato l’ufficio di polizia che si occupa di violenza giovanile tramite un amico che in polizia ci lavora. E mi sono purtroppo stupito di come in trent’anni sia cambiato poco. Si cerca di nascondere, minimizzare. E mi sono ritrovato a dire a mia figlia che al prossimo atto di bullismo è il caso di dargliele indietro.

So che ha anche un bimbo. Com’è con lui?

È piccolo, ma vuole già fare la boxe. Ma è molto tranquillo ed è un bambino molto dolce. Anche la grande, ma a un certo punto uno si stufa. È successo anche a me. Io sono andato sopra le righe, lo riconosco, ed è arrivato il momento in cui mi sono tirato insieme.

E cosa l’ha spinta a tirarsi insieme?

Ho fatto dodici anni di pugilato agonistico e il mio allenatore ha una buona parte di merito nel mio cambiamento. Le sue prediche sono servite, mi ha sempre detto che non potevo andare avanti così. E il resto è arrivato da solo, perché con gli anni si matura. E mi sono occupato di filosofia orientale, mi sono messo alla ricerca dei miei demoni…

Li ha trovati?

Parecchi sì. Ci sono dei momenti in cui, in positivo, la mia vecchia rabbia viene ancora fuori. È quella che mi ha permesso di risolvere problemi di lavoro, anche con i miei superiori…

Nei modi ortodossi spero…

Sì, senza menare le mani, cercando la diplomazia, che è una parola che è entrata nella mia vita per forza di cose. Perché poi, lo dicevo alla radio, alla fine sono sempre stato amico di tutti.

A parte quelli che ha menato…

Ma anche di quelli sono diventato amico!

Dopo.

Sì, dopo. Ma il bello era che ai nostri tempi potevi anche menarti, ed erano solo pugni, e poi andavi a bere insieme. Oggi mi danno fastidio quelli che sono forti in banda, picchiano e poi ci sono epiloghi spiacevoli. Ho seguito la cosa del Foce a distanza, sul web, ed è vergognoso che la polizia abbia dovuto indietreggiare davanti a questi personaggi. Negli anni Ottanta con la polizia c’era una certa conoscenza, non davi addosso al poliziotto, che spesso mediava. Mi è successo anche di essere stato riportato a casa dalla polizia, di sentirmi dire “ti porto a casa prima che ne fai un’altra…”. Ma quando senti di due, tre, quattro, cinque che danno addosso a uno da solo, mi dico che vorrei essere stato io quell’uno…

Giancarlo Piffero

‘Dai quattro cazzotti si è passati all’infierire’

Alla lettera: “Misure di prevenzione rivolte in particolare ai giovani che si sono già resi autori di reati o che sono a grave rischio di divenirlo”. Nel giugno del 2006, in seno alla Polizia cantonale, veniva creato il Gruppo visione giovani (Gvg), attualmente composto da un responsabile cantonale, quattro agenti coordinatori regionali per Locarnese, Bellinzonese, Luganese e Mendrisiotto e circa 40 antenne (agenti prevalentemente delle polizie comunali) dislocate sul territorio cantonale, persone di riferimento per le varie sedi scolastiche. Il Gvg svolge principalmente un lavoro di prevenzione e mediazione con le scuole elementari, medie, professionali e medie superiori, e interviene su richiesta degli Istituti scolastici e di privati in nome del “prevenire e mediare per evitare di denunciare”.

‘Bullismo fino a un certo punto’

Fino alla fine del 2019, a capo del Gvg è stato Giancarlo Piffero, che di violenza giovanile qualcosa sa, e molto ricorda anche degli anni Ottanta di Matt. «In quel periodo – racconta alla Regione – facevo parte della polizia stradale, ma lavoravo già a contatto coi giovani, essendo monitore di Gioventù + sport. Ricordo bene le teste calde del Locarnese, i Giovani picchiatori di Losone (Gpl). Qualcosa c’era anche a Gordola, ma i più eclatanti furono quelli di Losone, la generazione di adolescenti che aveva una decina d’anni in meno di me. Erano atti di prepotenza che si possono chiamare bullismo solo fino a un certo punto». Se per bullismo s’intende minacciare con un arma un coetaneo perché consumi un atto sessuale con la fidanzatina davanti agli occhi dei bulli e via via più su, o più giù, nella scala dei reati odiosi, con l’assai gettonato ‘Traino di adolescente agganciato all’auto’ di cui sempre si parla, e delle scazzottate gratuite. «E poi ci fu il periodo in cui toglievano i coperchi ai tombini nelle strade lasciandoli aperti, e potevi finirci dentro e farti male davvero». Per questi comportamenti illegali, alcuni di loro sono anche stati condannati.

A inizio anni Duemila, quando Piffero diventa responsabile del Gruppo visione giovani, i Gpl – «Che fantasia, poi, chiamarsi come il gas propano liquido…» – avevano già smesso di dare spettacolo. Non che il branco, inteso nella sua accezione più generale e meno nobile, abbia smesso di agire: «Oggi, oltre alle forme di violenza conosciuta al tempo, esistono anche altre forme di violenza, come quella psicologica esercitata dai ‘leoni da tastiera’ che si sentono forti facendo leva sull’anonimato». Una violenza «non conosciuta negli anni 80 e 90 ma sicuramente molto dannosa e pericolosa per chi la subisce», sostiene Piffero.

Involuzione

«Una volta, praticamente a ogni festa campestre – continua l’ex capo del Gvg – c’era una scazzottata, che però finiva perché l’uno se ne andava via o l’altro restava a terra sopraffatto. Da lì, nel tempo, si è arrivati a Damiano Tamagni, le cui lesioni fatali furono dovute alle percosse ricevute quando ancora si trovava a terra. Oggi s’infierisce quando una persona è a terra, incapace di difendersi, con pugni e pedate, e non è più il voler prevaricare qualcuno limitatamente al voler uscirne vincitore, ma il volerlo annientare».

Il sensibilizzatore e l’ex testa calda Matt concordano sul poco rispetto di cui godono oggi le forze dell’ordine: «Mi fa piacere che un ex giovane ribelle abbia fatto questa riflessione da adulto. È vero, un tempo c’era una forma di maggior rispetto nei confronti dell’autorità, e questo non solo da parte dei giovani ma anche da parte degli adulti. Negli ultimi 20-30 anni, vuoi per l’involuzione della comunicazione, vuoi per il linguaggio aggressivo e a volte sboccato e sgarbato di certi politici, molta violenza verbale passa come ‘normale’ e senza controllo». E «se una volta era “il signor maestro” e “il signor sindaco”, ora è “quel pirla del docente di seconda media” e “quel cretino di un sindaco”. Perché se a tavola dico davanti a mio figlio che fa le medie che “quel cretino di un poliziotto mi ha fatto la multa”, mio figlio penserà che il poliziotto è quel cretino che gli porta via i soldi, non colui che fa rispettare le regole. È la nostra società che è cambiata radicalmente, non solo i giovani». Il passo dal rispetto alla notte di guerriglia al Foce è assai breve: «La pandemia, le restrizioni, la frustrazione per la mancanza della possibilità di svago sono comprensibili, ma non si giustificano».

Aggiornando il detto

Il 23 dicembre del 2019 alla ‘Regione’, dopo 44 anni in polizia, Giancarlo Piffero faceva il bilancio della sua esperienza a capo del Gvg della Cantonale. Esperienza che il pensionamento non ha interrotto. Le richieste d’informazioni e le consulenze continuano, e il legame con le nuove generazioni è ancora aperto. «Oggi lavoro ancora coi giovani in ambito sportivo e formativo perché è gratificante. Mi piace stare con loro perché sono brillanti, spontanei, vivono le emozioni diversamente dagli adulti che a volte sono poco trasparenti, capaci di fingere, e adattati. I giovani vivono in modo molto marcato la fase adolescenziale della loro vita e normalmente trasmettono segnali se qualcosa non va». Meglio, a questo proposito, «se ce ne accorgiamo e ne discutiamo con loro».

Per concludere. «Il ritrovarsi in un gruppo dove si identificano, il gruppo che incita e provoca, può fare molto in senso negativo, oltre alla sensazione d’onnipotenza data da alcol, sostanze varie e abuso di giochi violenti su internet, che offuscano la percezione della gravità delle loro azioni e le relative conseguenze. Poi, magari, capita che incontrino una ragazza più tranquilla che riesce a condizionarli positivamente. Quel detto un po’ sempliciotto per il quale dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna potremmo aggiornarlo così: “Accanto a un ragazzo problematico, se ci mettiamo una ‘brava’ ragazza, magari lo raddrizza”.


Giancarlo Piffero, ex Polizia cantonale, già responsabile del Gruppo visione giovani (Ti-Press)

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