Il regista e produttore malcantonese si racconta in un’intervista per il suo ottantesimo compleanno (e i quarant’anni della sua Imagofilm)
Doveva essere un’intervista sulla sua carriera di regista e produttore, ma si è trasformata in una lunga chiacchierata sul cinema e su tanto altro. Del resto, gli ottant’anni di Villi Hermann non si possono risolvere con due domande, anche perché il compleanno si sovrappone all’anniversario dei quarant’anni della sua Imagofilm, la casa di produzione di tanti suoi lavori e di film come ‘Sinestesia’ di Erik Bernasconi, ‘Tutti giù’ e ‘Atlas’ di Niccolò Castelli e ‘Cronofobia’ di Francesco Rizzi. Le Giornate cinematografiche di Soletta, che nell’ultima edizioni gli hanno dedicato la sezione Rencontre, e la Ticino film commission gli rendono omaggio con una serie di interviste – disponibili online su ticinofilmcommission.ch – e mentre la piattaforma Play Suisse aggiunge nuovi titoli diretti o prodotti da Villi Hermann, la Rsi trasmette – domenica su La1 nell’ambito di Paganini – il suo documentario ‘Dj Mafio. Positive Vibes’ e arriva il dvd del già citato ‘Cronofobia’.
E in sala? Presto dovrebbe arrivare ‘Atlas’ di Castelli, ma certo questo non è il momento migliore per il cinema. «Ma non solo per il cinema – precisa subito Villi Hermann –, anche il teatro, la musica… l’è düra. E poi andare al cinema con solo trenta o quaranta persone non è molto sociale».
Però le sale finalmente stanno riaprendo.
Il mio timore è che i film svizzeri non avranno spazi, quando arriveranno le grandi produzioni americane e poi i film dei festival, di Locarno, di Venezia, di Cannes… forse il pomeriggio alle sei troveranno uno spazio.
Abbiamo passato un anno brutto: magari adesso la situazione cambia, però le persone hanno preso l’abitudine di guardare tutto in streaming, specialmente i giovani.
Io la vedo male per i giovani cineasti: per loro il futuro non è chiaro, non sanno che cosa fare. Tutti vogliono fare le serie, ma non so quanto questo possa essere un futuro. Non so se il cinema andrà avanti come lo abbiamo conosciuto noi, con le sale e le piazze.
A proposito di serie tv: se non sbaglio è un campo che non ha mai esplorato.
Io no, mai. La Rsi, tre o quattro anni fa, ci aveva proposto di pensare alla creazione di una serie ma è morta lì, perché dicevano di non avere i mezzi. Poi c’è stato un concorso, però io la vedo male: praticamente nessuno qui ha un’esperienza nel campo e clonare quello che fanno in altre nazioni non mi sembra una soluzione. Creare qualcosa di nuovo è difficile: ci sono le webserie del mio amico Alberto Meroni, questa magari è una via percorribile, ma semplicemente copiare le grandi serie tv non credo. Costano troppo e come si dice oggi “è business”: in una serie si investe perché la si vuole anche vendere, ma la gente oggi è abbastanza “viziata” per le location, gli attori, le storie e una serie fatta in economia non ha mercato.
Per i film invece?
Per i film secondo me c’è sempre l’etichetta – forse un po’ fasulla, ma io credo anche un po’ vera – della cultura: la gente va al cinema perché cerca qualcosa d’altro, il piacere di essere stimolati. Con una serie tv credo sia molto più difficile.
Già che stiamo facendo un discorso di produzione più che di regia: perché quarant’anni fa deciso di fare il salto con la Imagofilm?
Perché faccio il produttore? Perché – magari sono un po’ troppo svizzero in questo – mi piace avere il controllo di tutto, scegliere gli attori, la troupe, decidere come e dove spendere i soldi, insieme al regista per i film che produco per altri. Come produttore io andavo anche nelle sale per controllare se la proiezione era nel formato corretto, mi ricordo che ogni tanto ho litigato con l’esercente perché spegneva il proiettore durante i titoli di coda. Santo cielo, un po’ di rispetto! Ci sono attori, tecnici, collaboratori, amici, sponsor che hanno contribuito a realizzare il film!
Prendere tutto in mano.
Il produttore deve fare anche quello. E la stessa cosa con la televisione: a me fa male quando si programma uno dei nostri film alle 11 di sera quando tutti vanno a dormire perché al mattino dopo bisogna alzarsi presto. D’altronde investono nei nostri film, qual è il senso di trasmetterlo la sera tardi?
Ma soprattutto il produttore deve decidere dove investire i soldi. Ad esempio: nel’ultimo film di Castelli, ‘Atlas’, l’attentato si poteva fare con un grosso boom e un po’ di fumo, ma ci siamo detti che no, l’esplosione era una cosa importante e bisogna investirci tempi e denaro e cerchiamo di risparmiare in altre parti della produzione.
Questo, appunto, anche per i film non suoi.
Ho fatto il produttore prima per i miei film, poi sono arrivati Castelli, Meroni, Bernasconi, Rizzi a chiedermi se gli producevo i film. Ma più che un produttore, sono un amico che ci tiene a alla loro storia. E poi volevo aggiornarmi. Ho iniziato a lavorare con la pellicola e non sono uno di quelli che si legge i manuali tecnici: lavorando con i giovani ho fatto il mio tirocinio imparando da loro il digitale, sia il montaggio sia le riprese perché quando possibile mi piace fare io stesso l’operatore.
Gli inizi della carriera da regista, invece, come sono stati?
Io ho fatto una scuola a Londra, perché – come si dice, “figlio di operai” – non avevo la formazione universitaria necessaria per le altre scuole di cinema, mentre a Londra bisognava solo presentare un dossier, cosa che ho fatto con alcune fotografie e l’idea per un film. Dopo tre anni a Londra, ho iniziato a fare cortometraggi: costano poco, li puoi girare da solo e magari riesci anche a convincere gli amici a lavorare non dico gratis, ma diciamo a impegnarsi tanto per poco. Poi ho iniziato a pensare a lungometraggi: ‘San Gottardo’, ‘Innocenza’, ‘Matlosa’. Secondo me è importante, anche prima di iniziare a sognare di fare un lungometraggio, fare due o tre cortometraggi per fare un po’ di tirocinio, capire come lavorare con altri perché fare un film non è un lavoro solitario: il cinema si fa sempre in compagnia.
Ma che cosa l’ha spinta verso il cinema?
Io volevo fare l’artista: ho frequentato una scuola d’arte a Lucerna, poi in Germania e a Parigi. Volevo fare il pittore, ho anche fatto due o tre mostre ma a un certo momento ho capito che la tela mi limitava, mentre il cinema mi dava molta più libertà con l’immagine in movimento, il suono. Ma non ero un fanatico che da piccolo frequentava le sale cinematografiche.
Che tipo di storie deve raccontare un film? Il cinema deve riflettere sulla società?
Beh, sì: come cineasta e come produttore non ho mai fatto un film perché richiesto o perché “di moda”, ma ho sempre cercato di fare un film perché c’è qualcosa che mi sta a cuore. Magari raccontare qualcosa che è stato dimenticato o nascosto, per esempio certi documentari che ho fatto sulla Seconda guerra mondiale hanno richiamato l’attenzione su certi aspetti. Tutti i miei film sono partiti da qualcosa che sentivo il bisogno di dire.
Il film sui frontalieri, ‘Cerchiamo per subito operai, offriamo...’, ha più di quarant’anni ma vedo che la situazione è cambiata pochissimo; ‘San Gottardo’ affrontava il problema dell’immigrazione, poi ‘Bankomat’ sui giovani italiani di seconda generazione che non si sentono molto integrati in Svizzera, l’eterno problema delle nostre banche… sì, tutti i miei film hanno a che fare con la nostra vita.
Con un punto di vista personale, comunque.
Sì: la mia famiglia è molto mista. I miei nonni sono emigrati dal Malcantone in Francia e quando sono tornati hanno continuato a fare i gessatori stagionali in Svizzera interna, mia mamma come moltissime ragazze dell’epoca ha lavorato nelle filande oltregottardo e lì ha incontrato mio papà. In famiglia c’è sempre stato qualcuno che non era della stessa cultura, che non parlava la stessa lingua e questo io l’ho messo, nei miei film. Non ho inventato niente: è la Svizzera, siamo misti ma non vogliamo accettarlo.
Concluderei qui, a meno che non abbia qualcosa da aggiungere, qualche ricordo particolare…
Sì. C’è una persona che a me sta a cuore: Giovanni Orelli. Ho realizzato documentari in cui lui faceva commenti, ‘Matlosa’ è una sua novella, gli ho fatto un ritratto in Val Bedretto. È una persona che mi ha ispirato molto: ha letto più libri di chiunque altro, adorava il cinema anche se ci andava poco e mi parlava sempre dei film di Fellini…
In più, cosa che trovo bella, era sempre presente nella vista sociale, culturale e politica, era sempre in prima linea. E si sentiva sempre “il vallerano”, uno che vive in città ma che ha le radici nelle montagne e non le ha mai dimenticate: ci teneva alla sua identità da montanaro che sapeva mantenere pur vivendo a Lugano.