La ‘settima arte’ oltre Gottardo vista con gli occhi, e la cinepresa, di un regista ticinese. Fulvio Bernasconi, da Lugano alla fama internazionale
La terza chiacchierata con ticinesi che hanno intrapreso un cammino interessante al di là delle Alpi è questa volta con Fulvio Bernasconi, regista di fama internazionale, la cui serie più famosa, ‘Quartier des banques’, è stata vista in circa 30 Paesi. Nato e cresciuto a Lugano, classe 1969, a 19 anni si trasferisce a Ginevra, dove nel 1991 ottiene la laurea in Scienze politiche. Cinque anni più tardi si diploma in Cinematografia al Davi, la Scuola cantonale d’arte di Losanna. Dal 1997 è attivo come regista televisivo e cinematografico e anche come libero docente. Fra le sue opere più significative i lungometraggi ‘Fuori dalle corde’ (2007) e ‘Miséricorde’ (2016) e i documentari ‘In missione’ (2013) e ‘Dick Mary – Un grido per la giustizia’ (2018).
Cosa l’ha portata a diventare regista? Era il suo sogno?
La voglia di fare cinema è nata durante l’adolescenza, quando ho capito che i film non erano solo intrattenimento, ma anche un modo di raccontare la realtà. Rimasi colpito da ‘The Killing Fields’, un lungometraggio sulla guerra in Cambogia, e iniziai a sognare di girare film miei, cosa che allora, nella piccola Lugano, appariva quasi impossibile. Poiché in quegli anni le scuole di cinema erano di solito pensate come studi post laurea, dopo la Maturità mi iscrissi a Scienze politiche. Una scelta che rifarei, poiché mi ha fornito un’ottima base intellettuale e metodologica.
Ha girato sia documentari che fiction. Quale genere ama di più e cosa le riesce meglio?
Pur essendo molto diversi fra loro, li amo entrambi. Nella fiction c’è il piacere di inventare un mondo e di lavorare con gli attori, che è forse l’aspetto che preferisco. Il documentario dà invece la possibilità di accedere a realtà che altrimenti rimarrebbero impenetrabili, anche se magari si trovano a soli pochi metri da noi.
Nei suoi film appaiono temi, stili e registri piuttosto diversi fra loro, con storie ambientate sia in Svizzera che all’estero. Dove trova le idee per le sue opere?
L’ispirazione la trovo andando a cercare tra gli aspetti nascosti e misteriosi della vita. Mi piace esplorare i lati oscuri e spesso dolorosi dell’animo umano. John Ford, il famoso regista americano di western, diceva che non c’è paesaggio più bello del viso di una persona. È l’ignoto che si nasconde dietro ogni volto che mi affascina.
Un aspetto, quest’ultimo, presente anche nei suoi documentari. È alla ricerca di una qualche risposta esistenziale?
Ciò che maggiormente mi stimola è capire i motivi dietro alle azioni umane. È per questo che in passato mi è capitato di cercare situazioni un po’ estreme, per esempio legate alla violenza o al sadismo: perché penso che in condizioni estreme le persone appaiono in modo più chiaro, per come sono davvero, permettendomi al contempo di mostrare le ingiustizie, ciò che non va. Mia moglie, scherzando, dice che per i miei soggetti scelgo solo posti pericolosi, dove si sta male e dove la gente soffre. Non posso darle del tutto torto.
Com’è nata la serie Quartier des banques?
La primissima idea di fare una serie sulla fine del segreto bancario è stata del produttore, Jean-Marc Fröhle, che me ne ha parlato coinvolgendomi. A noi si è poi aggiunta Stéphane Mitchell. La serie racconta il mondo di un gruppo di privilegiati, però i temi trattati, come il sopruso o lo sfruttamento, sono quelli dei quali mi occupo da sempre. Soprattutto nella seconda stagione si vede come ciò che accade qui in Svizzera abbia conseguenze pesanti su altri paesi.
Si può vivere di cinema in Svizzera?
Sì. Per lo meno, io ci riesco (ride). Certo, se si vuole vivere solo dei proventi sui film usciti nelle sale, allora la cosa si fa difficile, anche perché in Svizzera un regista in media non fa più di un film ogni cinque anni. Ciò che ha permesso a me di lavorare in modo continuativo è stato fare tanta, tantissima televisione. Immagino che per molti colleghi che si limitano alla cinematografia mantenersi a galla non sia facile.
Com’è il panorama cinematografico svizzero?
Come in quasi tutti gli altri Paesi – Stati Uniti e India esclusi, dove si investe capitale privato – anche da noi il cinema viene finanziato per la maggior parte con soldi pubblici. In generale per un regista alle prime armi non è difficile trovare i fondi, se ha un buon progetto e qualche bel cortometraggio alle spalle. Anch’io ho cominciato in questo modo. Ciò che invece diventa problematico, e questo ovunque, è rimanere nel business: vi sono tanti primi film, pochi secondi film, pochissimi terzi e così via. Credo che questo accada perché ogni progetto è un test: se va bene, si continua, altrimenti si smette. Un regista deve dar prova di grande resistenza e pazienza.
Che consigli darebbe a dei giovani che vogliono avvicinarsi alla regia?
Direi loro di fare una buona scuola di cinema. Per diventare bravi ci vuole inoltre tanta curiosità verso gli altri e verso il mondo. Nemmeno leggere qualche libro fa male! Bisogna inoltre fare attenzione a non dare troppa importanza al mito dell’ispirazione artistica: va bene all’inizio, ma in seguito ci vuole tanto duro lavoro.
Cosa ne pensa di piattaforme come Netflix che stanno pian piano sminuendo il valore e la presenza delle sale cinematografiche?
Innanzitutto sono contento che il 15 maggio si sia votato sì alla nuova legge sul cinema. In questo modo le piattaforme di streaming reinvestiranno nella produzione locale il 4% dei guadagni generati da noi in Svizzera (di più sarebbe stato ancora meglio!). Per il resto non ho un’opinione forte in merito: ne prendo semplicemente atto. Quello che invece non vorrei è che la produzione mondiale si concentrasse attorno a poche sparute piattaforme creando un inevitabile appiattimento dei contenuti modellati su un’ideologia unica, quella americana. Auspico invece la nascita di tanti servizi streaming sparsi nel mondo che rispecchino le diverse realtà culturali. Da noi con Play Suisse abbiamo fatto un passo in avanti in tal senso, anche se al momento serve solo alla diffusione dei contenuti e non si occupa (ancora) di produzione.
I giovani stanno sempre più vivendo le loro storie tramite i videogiochi piuttosto che il cinema. Pensa che i primi sostituiranno il secondo?
Secondo me i videogiochi e l’audiovisivo soddisfano due bisogni molto diversi, entrambi primordiali: il cinema soddisfa il bisogno di farsi raccontare una storia, mentre i videogiochi quello di sfidare l’avversario, di essere più furbi e veloci, di giocare insomma. Non credo che entreranno mai davvero in concorrenza. Non a caso dai videogiochi si estrapolano i film.
Cosa le piace di più del suo lavoro?
Adoro stare sul set, dirigere gli attori, creare storie con altre persone. È come una piccola dipendenza: quando non lo faccio ne sento fortemente la mancanza. Sono inoltre consapevole di aver avuto fortuna perché mi guadagno da vivere seguendo le mie passioni.
Quali sono le sue prossime sfide professionali?
Sto creando una nuova serie televisiva ambientata nel 1980 tra Lugano e Miami, tratta da una storia vera. In pentola bolle anche uno stranissimo film per la televisione, un mix tra documentario e fiction del quale non posso ancora parlare. Infine, in fase embrionale, ho in cantiere un lungometraggio, un horror ambientato durante il World Economic Forum.
Ci sono stati ostacoli contro i quali ha dovuto lottare? Ha l’impressione che la sua diversa lingua e cultura le abbiano impedito di raggiungere certi obiettivi?
Lavorare nell’audiovisivo in un Paese con quattro lingue può rappresentare sì un arricchimento, ma è anche e soprattutto un grande ostacolo dal punto di vista pratico: basti pensare alle enormi differenze culturali come il senso dell’umorismo, completamente diverso a sud e a nord del Gottardo, o al fatto che i prodotti finiti non siano immediatamente fruibili da tutti.