Intervista al direttore della fotografia italiano, Pardo alla carriera al Locarno film festival
Che poi volevo guardare solo qualche minuto, diciamo la prima ora, di ‘Heat’ di Michael Mann. giovedì – anzi venerdì che ormai la mezzanotte era appena passata – sera in Piazza Grande. Ovviamente sono rimasto – e in buona compagnia, tenendo conto che è un film di quasi trent’anni fa visto e rivisto – fino alla fine, fino allo scontro all’aeroporto tra Al Pacino e Robert De Niro, una scena dominata dalle forti luci di atterraggio che si accendono e spengono. Grandi emozioni, ma meglio chiarire: siamo qui a parlare di quello che è un classico del cinema non per criticare i nuovi film che il direttore artistico del festival Giona Nazzaro ha portato in Piazza; per quanto le delusioni non siano mancate, abbiamo avuto anche delle belle sorprese (ne citiamo giusto due: ‘The Alleys’ di Bassel Ghandour e ‘Sinkhole’ di Kim Ji-hoon). Parliamo di ‘Heat’ perché è il film con cui Piazza Grande ha reso omaggio a Dante Spinotti, direttore della fotografia italiano – è nato in Friuli – dalla solida carriera nel cinema di Hollywood, al quale è stato consegnato il Pardo alla carriera: un maestro della luce ma, come ha insistito quando lo abbiamo incontrato, nel cinema le scelte non sono mai fini a sé stesse. «Non è che usi una luce perché è bella o carina, ma perché ha una funzionalità, perché è al servizio della storia».
La carriera di Dante Spinotti spazia, come accennato, dal cinema italiano (ha lavorato con Ermanno Olmi, Giuseppe Tornatore, Lina Wertmüller) a quello di Hollywood, firmando altri cult come ‘L.A. Confidential’ di Curtis Hanson o, sempre di Mann, ‘L'ultimo dei Mohicani’, dedicandosi anche a blockbuster come ‘X-Men: The Last Stand’ di Brett Raitner e ‘Ant-Man and the Wasp’ di Peyton Reed. «Sa, scegliere il film è come scegliere un matrimonio – ci spiega quando gli chiediamo com’è lavorare a produzioni così differenti –, non è che scegli con chi sposarti per un motivo particolare, perché ha i capelli di quel colore o è vestita in quel modo, ma perché è quella giusta». E quindi? «Ogni tanto è divertente fare un film di fantasia, ma è più interessante un film come Heat la sfida che narra una storia in termini molto realistici che devi rendere in maniera bella, eccitante, ‘sexy’ per il pubblico che vede. A volte bisogna prendere una persona che entra dalla porta e si siede a un tavolo, ma ci sono molti modi per farlo».
Dante Spinotti, come descriverebbe il contributo del direttore della fotografia al film?
Sa, ha tanti ruoli. Uno dei più pratici è gestire – per questo si chiama “direttore” – il reparto della fotografia quindi operatori, assistenti, macchinisti, elettricisti, insomma quelli che preparano le inquadrature prima che arrivino gli attori. E già questa è una discreta responsabilità perché abbiamo l’obbligo non solo di fare bene, ma anche di fare in fretta.
E dal punto di vista più artistico?
Quello che facciamo è interpretare una storia: leggere la sceneggiatura, capirla bene e cercare di immaginarsi un linguaggio – ovviamente in dialogo con il regista. Capire culturalmente che cosa è il film, da dove viene questo film: non è che usi una luce perché è bella o carina, ma perché ha una funzionalità. La macchina sarà sempre in movimento? Avremo delle inquadrature ferme? Macchina a mano? Ogni scelta deve avere una ragione che dipende da come si vuole raccontare il film, dal linguaggio che usa. È la cosa più difficile, per noi.
E poi l’illuminazione, la luce. La luce del film dipende da noi e anche lei deve avere una funzione. Cerchiamo fare in modo che l’illuminazione porti un tipo di emozione visiva che aiuti il racconto della storia del film. C’è un momento di felicità? La luce deve rappresentare quella felicità. Un momento di dramma, di attesa, di romanticismo, di nostalgia? La luce deve aiutare.
In ‘Heat’ c’è una scena in cui le luci giocano un ruolo particolare: Robert De Niro e Amy Brennan in auto di notte, entrano in tunnel illuminato abbagliando lo spettatore. È vero che è una scena nata per caso?
Sì. Non mi ricordo se abbiamo imbucato per errore quella strada – non credo perché in quei casi la polizia è avvertita e si stabilisce con precisione il percorso –, forse è stata l’urgenza del momento hai i due attori pronti, mancano poche ore all’alba, li fai entrare in auto e parti con le riprese. Fatto sta che il tragitto passa da quel tunnel che è molto illuminato. Vedo questa luce che salta per aria e penso che possa essere un regalo inaspettato. E in quel momento sento il regista che mi dice: “Dante mi raccomando non cambiare il diaframma”.
C’è quindi stato questo momento non pianificato. Ma non è stato il solo: tutti parlano del tunnel ma ci sono stati altri due regali inaspettati.
Ovvero?
Siamo in macchina con Al Pacino e i suoi uomini, stanno correndo verso la banca rapinata da De Niro. Stiamo girando e a un certo punto, per un problema tecnico, le luci che dentro l’auto illuminano gli attori si spengono. Non ci siamo fermati, siamo andati avanti a girare e alla fine il regista ha tenuto quella ripresa.
C’è stata poi la lite tra Val Kilmer e Ashley Judd: nel film sono marito e moglie e mentre litigano Val Kilmer lui tira un oggetto verso una libreria. Nella libreria c’è una lampada da tavolo, probabilmente con una luce potenziata per le riprese, e questa si rompe facendo esplodere la luce per un attimo. Regali strepitosi.
Questi ‘regali’ sarebbero arrivati anche se, invece che in pellicola, si fosse lavorato in digitale?
La differenza è che se hai la pellicola non dormi la notte, se hai il digitale vai a letto sereno. Molto meglio il digitale: il cambio tecnologico è secondo straordinario, quasi come l’avvento del sonoro.
Con la pellicola puoi andare a fare una lettura con l’esposimetro, ma non sai veramente quale è il vero impatto: ci aggiravamo come degli zombie con gli esposimetri chiedendoci “ma vedrò fuori da questa finestra o no?”. Un po’ l’idea la avevi, ma quando hai un monitor ad alta precisione, una camera digitale di altissima qualità come ormai sono quelle che si usano nel cinema, sai esattamente quello che succede e lo puoi controllare.
Il digitale ha in tutto raggiunto la resa della pellicola, quindi?
Sì. E va detto che ormai le pellicole passano tutte dal digitale, perché le sale hanno tutti proiettori digitali. Potrei pensare di usare la pellicola se dovessi fare un film d’epoca, ma recentemente ho lavorato a un film con mio figlio e c’è una sequenza in bianco e nero e una delle possibilità era girarla in pellicola ma alal fine abbiamo riprodotto il bianco e nero della Kodak Plus-X con una precisione e una bellezza di gamma straordinarie.
Ci può raccontare come è arrivato a Hollywood?
Hollywood è sempre stato un sogno, per me: quando ho lasciato la Rai per diventare un libero professionista avevo come obiettivo quello ed ebbi la fortuna di incontrare Dino De Laurentiis. Lui cercava tecnici e collaboratori che non fossero di Hollywood ma arrivassero dall’Inghilterra o dall’Italia e un direttore di produzione, Lucio Trentini, gli ha fatto il mio nome. De Laurentiis mi invitò a New York, dove ora c’è il palazzo di Trump: un incontro molto simpatico e firmai per un contratto di due anni.