Ticino

Vitta, la Supsi e la responsabilità sociale d'impresa

Il tema è sfuggente, e si rischia di usarlo a scopi autopromozionali. Come concretizzare? Intervista al Direttore del Dfe e alla ricercatrice Jenny Assi.

(Ti-Press)
11 febbraio 2020
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Responsabilità sociale d’impresa: ovvero l’impegno delle aziende per l’ambiente, il benessere dei suoi dipendenti e della comunità, i diritti umani... Un tema sfuggente, un po’ perché molto ampio, un po’ perché in passato è stato spesso dirottato dagli strateghi del marketing. Un’occasione per fare il punto in Ticino è stata la Giornata dell’economia: nella sede Supsi di Trevano, circa 350 persone hanno potuto conoscere le attività del Cantone e dell’università, ma anche i buoni esempi di alcune imprese e il punto di vista delle associazioni di categoria. Ne parliamo con Christian Vitta, direttore del Dipartimento delle finanze e dell’economia che ha organizzato l’evento.

Vitta, intendete licenziare a breve un messaggio per chiedere al Gran Consiglio un credito quadro a sostegno della ‘Corporate social responsibility’ (Csr). Di quanti soldi stiamo parlando, e per cosa?

Parlare di numeri è prematuro, vorremmo in questa prima tappa presentare un messaggio che permetta di fungere da apripista su questo tema, con dei sostegni a quelle aziende che ad esempio promuovono la formazione nell’ambito della Csr o adottano altre misure in questo ambito.

Quali misure?

È ancora prematuro poterle dettagliare ora, lo faremo al momento del messaggio. In ogni caso, si tratta di una fase propedeutica alla seconda, quella decisiva, nella quale declineremo la responsabilità sociale nelle diverse politiche pubbliche, in maniera tale che diventi poi attività quotidiana e riconosciuta anche dallo Stato.

Ma come fate a misurare la Csr per premiarla?

Questa è chiaramente una grande sfida. Ci sono aziende che praticano la Csr nella realtà quotidiana. Però ognuno la costruisce in funzione della propria attività. La sfida è riuscire a poterla misurare in maniera semplice – anche immediata – ed evitare pratiche semplicemente speculative, o utilizzate per fare del semplice marketing.

Ecco: una delle critiche alla Csr è proprio quella di essere solo una facciata, sfruttata per autopromozione. In un momento difficile – in cui ad esempio la disoccupazione secondo il dato Ilo (8,1%) supera perfino quella lombarda – non teme che il Cantone stesso sia accusato di sfruttare un tema ‘da buoni sentimenti’ per fare del marketing diversivo?

Assolutamente no. Questo elemento si aggiunge a tanti altri tasselli che affrontano queste problematiche. Chiaramente, per evitare che questo tipo di pratiche sia puro marketing devono veramente essere fatte proprie dall'azienda dal basso, essere vissute quotidianamente e sviluppate in maniera sincera. Altrimenti sarebbero percepite come qualcosa di artificiale, e l'effetto sarebbe addirittura negativo. Devo però dire che queste tematiche stanno assumendo sempre più rilevanza, perché ne va anche della reputazione di un'azienda.

In passato alcune politiche cantonali – ad esempio certi sgravi fiscali per le imprese – hanno attirato in Ticino alcune aziende molto grosse, che hanno portato un gettito importante, ma per responsabilità sociale non si sono certo distinte: penso a Kering nella moda. La Csr richiede anche di ripensare la politica fiscale?

Bisogna innanzitutto dire che il quadro di riferimento fiscale è legato comunque a determinate realtà a livello multinazionale e al quadro di riferimento svizzero, mutato negli ultimi anni. Effettivamente il contesto giuridico, non solo a livello fiscale ma anche di politiche del lavoro, si rifà a un modello di riferimento economico di alcuni decenni fa. Per incentivare le buone pratiche occorre invece registrare l’evoluzione di questi anni e dare ai Cantoni il necessario margine di movimento. Ma la legislazione svizzera, in questi ambiti, è ancora assai rigida.

Altri due ambiti d’intervento sarebbero la Legge sull’innovazione e quella sulle commesse pubbliche. Come?

Per le commesse, la valutazione della Csr è uno dei criteri entrati in vigore di recente. Con la Supsi ci stiamo sforzando di capire come misurarlo, e non è semplice. Dovremo partire con fasi test ed essere consapevoli che non possiamo applicare il medesimo criterio a tutti. Penso ad esempio ai piccoli artigiani, dai quali non possiamo aspettarci un tipo di reporting come quello delle grandi imprese. Magari in questo caso potremo adottare altri criteri. Per quanto riguarda l’innovazione, anche qui miriamo a incentivare le aziende più responsabili, ma generalizzare le ricette è difficile in una realtà in cui il 90% delle imprese ha meno di dieci dipendenti.

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Più sensibili, ma c'è ancora tanto da fare

Si può fare di più. Il 23% delle 525 imprese censite in Ticino dalla Supsi si interessa alla Corporate social responsibility (Csr), almeno a giudicare dal suo sito web, e il 14% compila un rapporto di sostenibilità. Il margine di miglioramento è ampio, anche perché una cosa è la comunicazione, un’altra i fatti. Ma allora cosa ci dice davvero il progetto Smart, sviluppato insieme alle province italiane di confine nell’ambito della collaborazione Interreg?

Il rapporto ha fatto inventario di quante e quali aziende si impegnino nell’ambito della Csr; fra le altre cose, servirà da canovaccio per il gruppo di lavoro Csr Ticino, che riunisce Supsi e rappresentanti dell’impresa. A coordinare il ramo ticinese di Smart è Jenny Assi, docente ricercatrice del Dipartimento di economia aziendale, sanità e sociale Supsi, che ce lo spiega così: «L’obiettivo era quello di studiare il quadro di riferimento sulla Csr a livello regionale. Poi abbiamo monitorato l’impegno delle imprese, trovando 14 indicatori che potrebbero essere usati per promuovere e misurare il tema anche a livello di piccole e medie imprese» (in aree come governance, rapporto con fornitori e clienti, gestione delle risorse umane, rapporti con la comunità e ambiente).

La conclusione è che la sensibilità cresce, e così pure la richiesta di formazione sul tema: «Il nostro gruppo ha offerto corsi specifici su questi argomenti, oltre a un corso di post-formazione in Csr con 30 partecipanti, 15 dei quali ticinesi», spiega Assi. Ma serve ancora un cambio di paradigma collettivo per valorizzare, oltre agli azionisti (shareholder), anche i lavoratori e le comunità (stakeholder). Solo così – ad esempio se i consumatori staranno più attenti a quello che comprano e le aziende ne recepiranno le nuove priorità – la responsabilità sociale potrà coniugarsi col profitto.

Belle parole a parte, ci arriveremo? «Vediamo una sensibilità e un’attenzione crescenti, sia da parte delle imprese che degli individui», nota la ricercatrice: «Bisogna però ancora superare alcune contraddizioni: ad esempio vediamo che i millennial sono sempre più disposti a premiare i prodotti sostenibili, ma il prezzo continua a costituire una discriminante importante e le contraddizioni non mancano».