Distruzioni per l'uso

La responsabilità sociale è un’impresa. Ma anche un diversivo

Il concetto suona bene e piace al governo, ma per incentivare comportamenti virtuosi serve riformare il contesto economico. Meglio non distrarsi

Adriano Olivetti (Wikipedia)
15 febbraio 2020
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‘Responsabilità sociale d’impresa’ è un’espressione che suona benissimo: evoca subito i discorsi di Adriano Olivetti, il ping-pong e i pouf in sala caffè, un gruppo di manager che ripulisce il greto d’un torrente. Non stupisce che il Consiglio di Stato l’abbia inserita nel programma di legislatura, e che il Dfe vi dedichi giornate d’approfondimento, studi e perfino uno spettacolo teatrale. L’argomento è importante e lo slogan funziona, anzitutto perché nessuno (o quasi) preferirebbe aziende irresponsabili. Poi perché è così vago che ci si può mettere dentro di tutto: la tutela dei lavoratori, quella della comunità e dell’ambiente, il rispetto della clientela e dei diritti umani, e quelle cose dette in inglese così nessuno capisce bene di cosa si parla, nemmeno gli inglesi: la governance, per dire.

Siessàr

Vago, per ora, è quanto si può e si intende fare per promuovere la corporate social responsibility, o Csr: pronunciatela siessàr, se volete far pesare che siete gente di mondo. Martedì, alla Giornata dell’economia, Christian Vitta ha affrontato il tema partendo dalla più nota delle citazioni kennediane: “Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese” (ci si dimentica sempre che Jfk lo diceva in tempi di politiche keynesiane, abbondante spesa pubblica e fiducia quasi prometeica nell’ingegneria sociale, mentre in epoca di tagli e deregolamentazioni suona tutto diverso). Poi ha annunciato un messaggio e un credito per incentivare le imprese alla responsabilità sociale. Anche se non ha detto quanti soldi saranno, quali criteri saranno utilizzati per assegnarli e come si dovrebbe misurare il comportamento delle imprese; non sono quesiti da poco, visto che la responsabilità sociale è entrata anche nella Legge sulle commesse pubbliche.

Ora: io non penso affatto che gli imprenditori siano tutti padronazzi, e la presunzione di colpevolezza imposta loro dalla sinistra più radicale mi fa venire l’orticaria; poi suppongo che chi gestisce un’azienda non voglia uccidere il cavallo del quale tiene le redini. E sì, ci sono molte aziende che fanno attenzione al rispetto dell’ambiente e al benessere dei lavoratori, e ben venga lo sforzo di formazione per dare loro strumenti migliori e obiettivi chiari: dall'adozione di regole trasparenti a un rapporto equo con consumatori e fornitori, dal contributo alla cosa pubblica al benessere dei lavoratori.

Però vedo anche che la ‘siessàr’ può essere facilmente ridotta a puro marketing: faccio un rapporto di sostenibilità pieno di figure e disegnini, in copertina ci metto un bel bambino appartenente a una minoranza etnica – “quest’anno toglimi il cinesino, falpiasé” –, nei testi utilizzo parole a caso come mission, vision, inspiration, diversity. Poi stampo tutto su carta riciclata, e via. Spero che il Cantone non voglia fare lo stesso, anche se la vaporosità di certi discorsi è poco incoraggiante. 

Da Tijuana a Ivrea

Anche perché la responsabilità sociale c’entra poco o nulla con gli incentivi diretti (hai pulito il laghetto, ecco cento franchi). A incoraggiarla è l’intero contesto economico e normativo, sul quale la politica locale ha un potere forse limitato – siamo un satellite di realtà ben più vaste – ma comunque importante. Se ad esempio il quadro fiscale continua a incoraggiare l’insediamento di imprese corsare, che qui producono poco o nulla e lasciano dietro di sé gusci vuoti, sarà difficile diventare la nuova Ivrea olivettiana. Allo stesso tempo, si è visto che il ‘Jobwunder’ degli ultimi anni non ha interessato i residenti, fra i quali anzi si contano sempre più disoccupati – più che in Lombardia – e numerosi sottoccupati. Segno che fa ancora troppo comodo puntare su settori poco innovativi e competere solo sul prezzo, sfruttando i bassi salari sulla frontiera. Si potrebbero aggiungere il dumping, la speculazione edilizia, i consigli d’amministrazione nei quali girano sempre gli stessi nomi ‘politici’, i molti industriali che si oppongono all’iniziativa per multinazionali responsabili (“quelli che ‘non è per i soldi, è per il principio’…”, direbbe Beppe Viola). Finché la situazione rimane questa, è proprio l'imprenditore responsabile a rischiare uno svantaggio competitivo.

Lo dico senza voler fare del catastrofismo – un tessuto più solido e giusto esiste – e ben sapendo che non sono solo problemi di oggi: quando per cinquant’anni sei stato (anche) la Tijuana dov’era possibile quel che oltrefrontiera era proibito, cambiare paradigma richiede tempo. Ma se i problemi persistono e si aggravano, e la narrazione dominante continua col suo ‘tout va bien’, evidentemente si sta facendo troppo poco. Poi va benissimo affidarsi alle imprese perché facciano la loro parte, con o senza Kennedy. Se però a molti conviene ancora fare l’opposto, l’impressione è che parlare di responsabilità sociale possa diventare un facile diversivo.

 

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