Luce verde dal giudice dei provvedimenti coercitivi Ares Bernasconi alla nostra richiesta di avere copia della decisione di dissigillamento
Sull’abbattimento dell’ex Macello di Lugano ‘laRegione’ riceverà, eventuali ricorsi permettendo, una copia anonimizzata della decisione con cui il 10 maggio il giudice dei provvedimenti coercitivi Ares Bernasconi ha disposto la levata dei sigilli sulla documentazione fornita dalla Polizia cantonale in merito all’operazione delle forze dell’ordine nella notte tra il 29 e 30 maggio 2021. Decisione della quale il nostro giornale fece richiesta immediatamente dopo la sua emanazione, e ora lo stesso gpc Bernasconi ha riconosciuto la fondatezza dell’istanza presentata dal direttore Daniel Ritzer e dal vicedirettore Andrea Manna del quotidiano. Nella sentenza datata 4 luglio, sedici pagine fitte comprendenti pure le prese di posizione del procuratore generale Andrea Pagani, del comandante della Polizia cantonale Matteo Cocchi e del Consiglio di Stato, Bernasconi sgombra il campo. “Si può giustificare l’adozione di misure di protezione – scrive il gpc – se l’autorità interessata dovesse ritenere che una restrizione dell’accesso agli atti di altre persone che non fanno parte delle autorità penali, in particolare degli accusatori privati o pubblici. La richiesta della Polizia cantonale (che chiedeva di respingere la pubblicazione anonimizzata della decisione, ndr) si confonde con la ponderazione degli interessi comunque da svolgere in queste evenienze”.
A questo punto, si legge ancora nella sentenza, “non si può ignorare la circostanza che la riapertura dell’inchiesta è dovuta alla sentenza della Corte dei reclami penali del Tribunale d’appello: una decisione – annota il giudice dei provvedimenti coercitivi – oltremodo dettagliata e puntuale (93 pagine), che riassume con particolare dovizia praticamente già tutti i fatti importanti della demolizione di parte dell’ex Macello”. Se ne deduce che “indubbiamente tale sentenza è già in possesso degli organi di stampa, che ampiamente ne hanno riferito in giornali, siti d’informazione e d’opinione”.
Fatti che risalgono a più di tre anni fa, e “in questo senso in ogni caso qualsiasi potenziale pericolo di collusione è ormai venuto meno”. Di conseguenza, per il gpc Bernasconi “una necessità di differimento della pubblicazione a ragione non è sostanziato. La situazione non è lontanamente comparabile a controversie relative a misure di sorveglianza segrete attivate prima di un eventuale intervento di polizia o relative all’emanazione di un ordine di arresto”.
Ciò detto, si entra nella carne viva della questione. Vale a dire il contenuto della decisione con cui due mesi fa il gpc ha disposto la levata dei sigilli: “Sono stati anonimizzati i nomi e le funzioni all’interno della Polizia”. Di più: “Si è comunque provveduto a un’ulteriore anonimizzazione rispetto alla bozza inviata alle parti interessate dall’istanza”. Per il resto, “si tratta di 12 pagine di decisione, le quali però – contrariamente all’opinione della Polizia cantonale – non forniscono particolari dettagli”. Difatti, “sia il Consiglio di Stato sia la Polizia cantonale non motivano né sostanziano specificatamente ove sarebbe necessaria una anonimizzazione accresciuta”. Ulteriori oscuramenti “sarebbero chiaramente incompatibili con il principio di pubblicità, anche perché renderebbero la decisione incomprensibile o non permetterebbero al lettore di capire perché questo Giudice abbia concluso in un modo piuttosto che un altro”. A questa valutazione si arriva “evidentemente” perché “il giudice dei provvedimenti coercitivi è un’autorità giudiziaria a tutti gli effetti. La cosa non può evidentemente essere trasposta direttamente al Ministero pubblico, che non è un tribunale né secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, né secondo la Costituzione, né secondo il Codice di procedura penale”.
Il gpc Bernasconi sottolinea “una volta di più” anche un altro fatto. Vale a dire che “l’ex Macello è un bene amministrativo del Comune di Lugano. Coinvolto era giocoforza l’Esecutivo comunale, i cui componenti sono per la loro funzione personaggi pubblici e hanno agito nell’ambito del loro ruolo (e non come persone private)”. Quindi, “interessi privati in tale contesto sono ben difficilmente ravvisabili”. Sia come sia, “questo Giudice è cosciente che la possibilità di identificazione è reale, ma proprio in un ambito di autorità politiche o di alti dirigenti dell’amministrazione, non ricorrono ancora motivi preponderanti rispetto alla trasparenza della giurisprudenza”. In definitiva, “nella fattispecie non si ravvisano interessi, pubblici o privati, che possano ostare all’accesso agli istanti della decisione – anonimizzata come è stato indicato – di dissigillamento del 10 maggio 2024”.
Ecco quindi spiegato perché per il giudice dei provvedimenti coercitivi Ares Bernasconi “l’istanza deve essere sostanzialmente accolta”. E che “occorre ricordare che spetterà in prima persona agli istanti, quali giornalisti, in conformità al codice deontologico della loro professione, nella stesura dei rispettivi articoli, non solo di prestare attenzione alla personalità delle parti processuali e al principio della presunzione di innocenza degli imputati, ma altresì evidenziare il carattere della decisione di dissigillamento del 10 maggio 2024 (la quale pone sì termine a una fase giudiziaria procedurale, ma non stabilisce ancora un’assoluzione o una colpevolezza)”.
Insomma, ‘laRegione’ potrà ricevere una copia anonimizzata della decisione di dissigillamento del 10 maggio 2024, salvo ricorsi da presentare alla Crp entro dieci giorni dall’intimazione. Se il pg Andrea Pagani, interpellato dal gpc sulla domanda, scrisse di rimettersi “al suo prudente criterio, ricordando che attualmente l’istruttoria è ancora pendente”, le opinioni di Polizia cantonale e Consiglio di Stato fu più netta. Molto più netta.
Nel suo scritto del 19 giugno, il comandante della PolCantonale Matteo Cocchi affermò stentoreo: “Ritengo non vada assolutamente dato seguito”. Inoltre, per Cocchi, “secondo l’articolo 61 lettera a) del Codice di procedura penale è il Ministero pubblico che dirige il procedimento sino all’abbandono dello stesso o sino alla promozione dell’accusa. Spetta dunque ad esso valutare il contenuto delle informazioni dissigillate e portare avanti la procedura”. E se “il principio di pubblicità e trasparenza si applica alle udienze, sentenze e ordinanze dei tribunali di primo grado e al tribunale d’appello, la procedura preliminare e la procedura davanti al giudice dei provvedimenti coercitivi non sono pubbliche”, per Cocchi c’è dell’altro. Nel senso che “dato che la decisione in questione contiene informazioni relative al procedimento penale in corso, viola la presunzione d’innocenza degli imputati”. E ancora: ci sono informazioni che “non devono essere divulgate prima della conclusione del procedimento poiché potrebbero influire sul procedimento ancora in corso o addirittura danneggiare l’immagine delle istituzioni. Va anche osservato che l’anonimizzazione della sentenza come proposta non tutela le persone indicate nella stessa, infatti per semplice deduzione si può risalire ai nomi degli imputati”.
Più stringato ma nella stessa direzione va il governo: “La decisione in questione contiene informazioni dettagliate tuttora oggetto di esame nel procedimento penale ancora in corso, sottostante al segreto istruttorio”. E quindi “ai sensi dell’articolo 69 capoverso 3 lettera b) del Codice di diritto processuale penale, la procedura dinanzi al giudice dei provvedimenti coercitivi non è pubblica”. Pertanto, alla nostra richiesta secondo il Consiglio di Stato “non deve essere dato seguito”.
‘laRegione’, come detto, ha chiesto e ottenuto di poter visionare in forma anonimizzata la decisione. A questo proposito il Gpc sottolinea che “l’anonimizzazione non deve però condurre a rendere la decisione illeggibile o incomprensibile. Essa deve permettere di evitare, per quanto possibile, di risalire all’identità della persona interessata. Una persona toccata da una procedura giudiziaria – riconosce il giudice – è tuttavia possibile che sia comunque identificabile, malgrado l’anonimizzazione”. Ciò nonostante, “il rischio di identificazione di una persona non è nemmeno un motivo sufficiente per rinunciare alla pubblicazione di una decisione poiché, in una simile ipotesi, non sarebbe possibile garantire una giurisprudenza trasparente”.
A questo proposito nella decisione vengono citati il Patto internazionale relativo ai diritti politici e civili, al quale la Svizzera ha aderito nel 1992, e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Entrambe sanciscono il principio della pubblicità della giustizia. Un principio “che permette a chiunque di assicurarsi che la giustizia sia resa correttamente, tutelando la trasparenza e la fiducia dei tribunali ed evitando l’impressione che determinate persone possano essere favorite o sfavorite senza giustificazione dalle autorità giudiziarie”.
Inoltre, scrive il Gpc, già nel 2008 il Tribunale federale ha stabilito che il principio della pubblicità della giustizia è applicabile, per esempio, anche a decreti di non luogo a procedere e di abbandono. “L’esclusione di principio da questo campo di attività giudiziaria di ogni informazione può lasciare spazio a un possibile arbitrio dell’autorità o a una ‘giustizia segreta’ priva di trasparenza”. Come detto in precedenza, il giudice sostiene che “in questo contesto non si può nemmeno ignorare l’adozione il 22 maggio 2023 (con 76 voti favorevoli, 1 contrario e 9 astensioni) da parte del Gran Consiglio della mozione presentata dai deputati Fiorenzo Dadò e Sabrina Aldi ‘per una maggiore pubblicità i informazione del potere giudiziario’. Eccezion fatte diverse obiezioni agli intenti della mozione per tutelare al meglio le vittime di reati sessuali o di violenza di genere – afferma il Gpc –, il parlamento ha invitato il Consiglio di Stato a migliorare la pubblicazione di decisioni giudiziarie”.
Si legge nella decisione, che cita la più recente giurisprudenza, “le autorità giudiziarie devono pubblicare anche le sentenze non ancora passate in giudicato. Limitare la consultazione delle sentenze passate in giudicato è in contrasto con la trasparenza dell’attività giudiziaria e complica l’effettivo controllo da parte dei media. Nel caso dei media – riprende il gpc – l’interesse alla consultazione delle sentenze nasce automaticamente dalla loro funzione di controllo, della magistratura, anche senza ulteriori giustificazioni”.
A proposito degli argomenti sollevati da Polcantonale e governo, citati in precedenza, il gpc è chiaro: “Già solo la pratica di pubblicazione nel sito www.senzenze.ti.ch dimostra che l’interpretazione autentica dell’art. 69 cpv 3 lett. b e c Cpp non è quella proposta dal Consiglio di Stato e dalla Polizia cantonale. Se è vero che non è prevista una pubblicazione sistematica delle pronunce, non si può negare che si possono trovare 773 sentenze della Corte dei reclami penali e 1’024 decisioni dell’allora Giudice dell’istruzione e dell’arresto, di cui molte in materia di libertà provvisoria”. A ciò si aggiunge che la prassi del Tribunale federale e del Tribunale penale federale consiste “nel pubblicare sistematicamente e relativamente nell’immediatezza, una settimana al massimo un mese, dall’emanazione della motivazione della sentenza”.