Storie mondiali

Usa 94, gloria per la Svizzera e requiem per Escobar

Durante il Mondiale 1994, dove i rossocrociati tornavano dopo quasi trent’anni, un calciatore colombiano venne ucciso a causa di un’autorete

27 settembre 2022
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Chi nel giugno 2021 definì sfrenata e inedita la gioia dei tifosi svizzeri per il successo sulla Francia che valse l’approdo ai quarti di finale degli Europei evidentemente non ricordava l’esplosione di emozioni che, il 17 novembre 1993, salutò la qualificazione dei rossocrociati al Mondiale dopo un’astinenza durata una vita. Dall’edizione inglese del 1966 – data dell’ultima partecipazione – era passata un’eternità, e il mondo nel frattempo si era trasformato: in mezzo c’era stato il Sessantotto, lo sbarco sulla Luna, l’avvento dei pc e dei telefoni cellulari. Molti degli appassionati a metà degli anni 60 non erano ancora nati o non erano abbastanza grandi per averne dei ricordi. Per almeno un paio di generazioni di tifosi, dunque, quella qualificazione alla Coppa del mondo – raggiunta grazie al secondo posto nel girone dietro l’Italia e davanti al Portogallo – fu davvero qualcosa di straordinario, mica come succede oggi, epoca fortunata in cui l’accesso elvetico alle fasi finali dei grandi tornei è divenuto la normalità.

Il miracolo fu possibile per la combinazione fra una felice sfornata di calciatori e le qualità di Roy Hodgson, portatore di un modus operandi mai visto nel calcio nostrano. Prima della sua nomina a Ct, infatti, la Nazionale temeva quasi di dar fastidio e si toglieva presto d’impiccio per non rubare tempo a chi contava più di lei. Col tecnico inglese – che alla guida dello Xamax aveva sconfitto nientemeno che Celtic e Real Madrid – si registrò invece un cambio di marcia: trasmise a giocatori e dirigenti la giusta ambizione, la necessaria professionalità e un po’ di autostima. E di conseguenza arrivarono i risultati. La selezione più amata in assoluto – con Sforza, Geiger, Sutter, Pascolo e Chapuisat – si arrampicò infatti fino a un incredibile terzo posto del ranking mondiale.

Destini opposti

In America, quella squadra pareggiò 1-1 contro i padroni di casa a Detroit, in uno stadio indoor, grazie a una magistrale punizione di nonno Bregy (36 anni), e poi asfaltò i rumeni del divino Hagi (4-1) con doppietta di Knup e reti di Sutter e Chapuisat. Nell’ultimo match, ormai certa della qualificazione, si lasciò invece superare dalla Colombia del Pacho Maturana – l’Arrigo Sacchi sudamericano – già matematicamente eliminata. I rossocrociati del Messia Roy Hodgson, al quale comunque non perdoneremo mai l’esclusione di Kubilay Türkyilmaz, giunsero agli ottavi ormai appagati, e con la Spagna fecero soltanto da sparring partner, venendo battuti 3-0. Al ritorno in patria, furono ricevuti con gli omaggi dovuti agli eroi.

Opposta fu l’accoglienza riservata ai Colombiani, che avevano assai deluso i propri tifosi. Avendo dominato le qualificazioni sudamericane – andando fra l’altro a vincere 5-0 in Argentina – i cafeteros erano sbarcati negli Usa con grandi ambizioni, e nessuno si aspettava che venissero eliminati già al primo turno. Tecnico e giocatori – fra i quali c’erano campioni come Rincon, Valderrama e Asprilla – furono bersagliati di pomodori e uova marce, qualcuno si prese pure uno schiaffone, ma nessuno poteva immaginare la gravità di ciò che sarebbe accaduto in seguito. L’episodio all’origine del gesto che avrebbe scioccato il mondo intero si verificò il 22 giugno 1994 al Rose Bowl di Pasadena, dove la Colombia sfidava gli Usa in una partita assai delicata: già sconfitti all’esordio dalla Romania, perdendo di nuovo i sudamericani sarebbero stati eliminati, e dunque entrarono in campo pietrificati dalla paura. Anche perché, la sera precedente, un fax giunto nel loro ritiro li aveva minacciati: se Gomez, ritenuto responsabile della débacle contro i rumeni, avesse di nuovo giocato, la sua casa e quella di Maturana sarebbero saltate in aria. Il calcio colombiano, come l’intero Paese, era infatti ostaggio nei narcotrafficanti. Poco prima del Mondiale, un arbitro che non volle farsi corrompere era stato ucciso, e il figlio del nazionale Herrera era stato rapito. C’era insomma poco da scherzare, e Gomez venne immediatamente rimpatriato.

Sta di fatto che, terrorizzato come tutti i suoi compagni, il difensore Andres Escobar intervenne in scivolata su un cross statunitense e sciaguratamente mandò la palla nella propria porta. Devastato, il ragazzo faticò a rimettersi in piedi: sapeva che sul suo Mondiale, e su quello della Colombia, era appena calato il sipario. Infatti la squadra piombò ancor più nel panico e finì per subire un altro gol, a cui saprà rispondere accorciando le distanze solo al 90’, troppo tardi. Andres Escobar giocherà l’ultima partita della sua vita quattro giorni più tardi, e fu come detto un’inutile vittoria contro la Svizzera. Rientrati in un Paese in lacrime per l’eliminazione – ma soprattutto per i molti pesos scommessi e persi sul passaggio del turno – i giocatori cercarono consolazione in famiglia. Per Escobar, ad ogni modo, erano giorni frenetici: presto avrebbe sposato Pamela e i preparativi incombevano. Intervistato dalla tv, Andres chiedendo perdono alla nazione disse che avrebbe dato tutto ciò che possedeva per riavvolgere il nastro e cancellare quel maledetto autogol, ma purtroppo non era possibile. La sua vita, aggiunse, non era comunque finita lì. Ma si sbagliava di grosso.

Notte tragica

Il 1° luglio, dopo aver cenato con Pamela e averla riaccompagnata a casa presto perché era dentista e l’indomani doveva alzarsi all’alba, il difensore del Nacional de Medellin raggiunse alcuni amici che lo aspettavano in un night per farsi offrire da bere. Tirarono tardi divertendosi e, per la prima volta dopo il match contro gli Usa, Andres riuscì infine a rilassarsi. Rincuorato, salutò gli amici sul piazzale della balera quando ormai s’era fatto giorno. Fece per salire in macchina, ma un tizio apparso dal nulla gli bloccò il polso sulla maniglia della portiera. Prima che potesse capirci qualcosa, spuntò un altro ceffo armato di mitraglietta. Grazie per l’autorete – gli disse – e gli sparò sei volte, uccidendolo.

La morte di Escobar venne archiviata come uno dei quattromila omicidi legati, ogni anno, al narcotraffico colombiano: un mondo che grazie ai buoni studi, al padre banchiere e alla sua pelle bianca, da Andres era lontanissimo. Aveva ventisette anni e sognava di tornare a giocare in Europa, per rifarsi di una sfortunata esperienza fatta nel 1989 a Berna, allo Young Boys, dove era giunto troppo acerbo. A riconoscere la sua salma, al posto dei genitori straziati, ci andarono tre compagni di squadra: Aristizabal, Serna e Higuita che era appena uscito dal carcere. Pure lui aveva pagato caro una leggerezza: quattro anni prima, al Mondiale italiano, era uscito come faceva spesso col pallone fra i piedi fino a metà campo, dove il camerunense Milla gliel’aveva scippato per andarsene a segnare indisturbato. I mammasantissima dei cartelli della coca, per colpa di quella pazzia, avevano perso scommesse per svariati milioni. Higuita ebbe salva la pelle, ma fu costretto a lavorare per i narcos, che lo usarono come intermediario nel sequestro della figlia di un imprenditore. Fu beccato e finì al fresco per sette mesi.

Usa 94 fu l’ultima Coppa del mondo a 24 squadre e la prima in cui la vittoria fruttava tre punti, e fu pure il torneo che vide la Svizzera tornare dopo una vita sul palcoscenico più prestigioso: ma molti, per sempre, lo ricorderanno come il Mondiale del povero Andres Escobar Saldarriaga, che la Fifa omaggiò in fretta e furia a Chicago con un minuto di silenzio un paio d’ore dopo il suo assassinio, prima dell’ottavo di finale fra Germania e Belgio.

Questa è la quindicesima puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del mondo di calcio che ci accompagnerà fino a novembre, nell’immediata vigilia di Qatar 2022.