Nel 1978 la giunta militare argentina utilizzò la Coppa del mondo per coprire i crimini di cui si macchiava
Nel marzo del 1976 in Argentina un golpe militare depose Isabelita Perón e istituì la più fascista e sanguinaria dittatura che il Paese, pur avvezzo ai sistemi totalitari, avesse mai conosciuto. Decisa a far piazza pulita degli oppositori, la Junta – diretta dal generale Videla e sodali come Agosti, Massera e Lacoste – da subito represse ogni tipo di dissenso politico, venisse da sinistra o fosse peronista. La sistematica eliminazione fisica degli indesiderati passò alla storia come la Guerra Sporca e provocò la morte di trentamila persone, i tristemente celebri Desaparecidos, molti dei quali furono torturati e poi lanciati nell’Atlantico da aerei delle forze armate. Fu dunque in un contesto di soprusi e violazione dei diritti che un paio d’anni più tardi – nel 1978 – il Paese organizzò la Coppa del mondo di calcio, torneo assegnato all’Argentina già dal lontano 1966 e che la Giunta, scaltra, utilizzò da una parte per distogliere l’attenzione del popolo dal dramma che stava vivendo e dall’altra per mostrare al mondo che il Paese era moderno e florido.
Ma, soprattutto, per smentire le voci secondo cui laggiù regnasse un clima di terrore e che la gente fosse vessata da un feroce regime. E non badò a spese, tanto che il budget del Mundial fu cinque volte superiore a quello stanziato quattro anni più tardi per il Mundial spagnolo, benché in Argentina vi partecipassero solo 16 squadre – a fronte delle 24 impegnate in terra iberica – e malgrado le città coinvolte nella kermesse fossero solo 5, contro le 14 di España 82. Gran parte dei fondi infatti servì a coprire i costi della propaganda. E non parliamo di semplice pubblicità, ma di una complessa macchina gestita da emanazioni dell’intelligence che avevano il compito di spacciare all’estero un’immagine assai diversa da quella che il Paese presentava nella realtà. Alla stampa nazionale fu ordinato di scrivere solo ciò che premeva ai tiranni, mentre migliaia di giornalisti di ogni continente furono invitati nei mesi prima del Mondiale a trascorrere vacanze da sogno nei migliori hotel d’Argentina. Ovviamente tutto era gratis: a patto che una volta rimpatriati con le valigie piene di costosi omaggi tutti si mettessero a magnificare – tramite radio, tv, quotidiani e riviste – le bellezze naturali, la potenza agro-industriale e l’esemplare ordine che vigeva a Buenos Aires e nelle altre città. Specificando ovviamente che, se le autorità ogni tanto usavano il pugno di ferro, non era certo verso la gente comune, bensì contro i terroristi che minavano la pace sociale, come del resto si sarebbe fatto in qualsiasi altra tranquilla democrazia.
Imbavagliata la stampa estera – che mosse qualche timidissima critica solo negli ambienti più radicali della sinistra europea – si trattava ora di addomesticare il popolo argentino, che certo non si accontentava di fesserie sulla bellezza della Patagonia e delle cascate di Iguazu. Se si voleva davvero rabbonirlo per qualche mese, facendogli dimenticare inflazione galoppante e privazione della libertà, il Mundial non andava soltanto ospitato, bisognava anche vincerlo. E per farlo ci voleva l’uomo giusto. La scelta cadde, dopo i Mondiali di Germania nel 1974, su César Luis Menotti, emergente allenatore trentaseienne capace di guidare l’Huracàn al titolo nazionale, come non succedeva da 45 anni e come non sarebbe mai più accaduto. Se gli è riuscito tale miracolo – pensavano tutti – certo sarà capace di regalare finalmente all’Argentina il suo primo titolo mondiale. E lui iniziò a lavorare coi migliori calciatori del Paese, con buoni risultati. Ma nel ’76, dopo il golpe, qualcuno chiese la sua testa: il Flaco Menotti era di sinistra e non poteva rimanere al suo posto. Si trattava però di un comunista atipico: le sue idee sul calcio e i suoi metodi di conduzione tecnica, infatti, ai membri della Junta piacevano parecchio. Aborriva ad esempio tutto ciò che veniva dall’estero, come il rivoluzionario calcio totale olandese o il lassismo alcolico che regnava nelle nazionali britanniche. Inoltre, Menotti disse che avrebbe convocato solo i giocatori militanti in patria: i mercenari che andavano all’estero ad arricchirsi, per lui, non erano più argentini. Fece eccezione solo per il divino Kempes, ingaggiato dal Valencia. E poi, soprattutto, il Flaco definiva il suo credo tattico Defensa del estilo argentino, mentre definiva el proceso il suo lavoro alla guida della selezione albiceleste, e ciò faceva naturalmente gongolare Videla e soci, dato che la dittatura aveva battezzato sé stessa Proceso de reorganizacion nacional. Menotti, dunque, rimase al suo posto.
A dare le dimissioni fu invece Jorge Carrascosa, capitano della Seleccion argentina, che decise di gettare la spugna nel gennaio del 1978, pochi mesi prima dell’inizio del Mundial, a un passo dal realizzare il sogno di ogni bambino, come diceva Maradona: "Jugar en el Mundial y salir campeon". Ma el Lobo Carrascosa sognatore non lo era più, perché la realtà che lo circondava non glielo consentiva. Capì che la nazionale argentina stava diventando uno strumento della dittatura, non volle rendersi complice della feccia e stringere mani sporche di sangue. E così, a 29 anni, si tolse la fascia dal braccio, smise di giocare e lasciò per sempre il mondo del calcio. A diventare capitano fu Daniel Passarella, il difensore goleador, grandissimo giocatore e cocco di Videla: sarà lui, il 25 giugno, ad alzare al cielo la Coppa del mondo alla fine di un torneo rivelatosi più duro di quel che tutti pensavano. Sconfitti dall’Italia nell’ultima gara del primo turno, gli argentini chiusero secondi e furono costretti a lasciare Buenos Aires ed emigrare a Rosario per disputare la seconda fase: nei giocatori si insinuò il dubbio che forse non fossero poi così forti, mentre per i dittatori fu uno smacco che tolse prestigio. Oltretutto, quando al termine della seconda fase mancava solo la sfida col Perù, gli argentini si ritrovarono a pari punti col Brasile, ma messi peggio nella differenza reti: per giocare la finalissima dovevano battere gli andini almeno 4-0.
Ma il premio a vincere che i brasiliani promisero ai peruviani non poteva certo competere col patto firmato fra il tiranno d’Argentina – il generale Jorge Rafael Videla Redondo – e il despota di Lima Francisco Morales Bermúdez, stipulato in presenza del garante (interessato) Heinz Alfred (Henry) Kissinger. Il quale passò di persona nello spogliatoio peruviano prima del fischio d’inizio per aver conferma che ognuno sapesse cosa fare – cioè nada – affinché agli argentini fosse consentito di segnare indisturbati 4 volte.
Ci sarebbe stata ‘plata’ per tutti, ovvio, e per qualcuno buoni contratti con club argentini. In cambio di una Coppa del mondo funzionale a rabbonire un popolo ormai esasperato dal suo regime, Videla avrebbe fornito al Perù montagne di carne e cereali, oltre a un incondizionato sostegno politico e militare. Sostanziosa, naturalmente, fu pure la commissione toccata a Bermúdez, un criminale di cui oggi non parla più nessuno – scampato fino a 101 anni e morto nel luglio di quest’anno – che fino al suo ultimo giorno se n’è fregato dell’ergastolo comminatogli dalla Corte d’Assise di Roma per gli abomini perpetrati nell’ambito della Operación Condor, ideata per eliminare qualunque sovversivo in ogni angolo del Sudamerica con la benedizione della Cia. Gli accordi furono rispettati, i peruviani vollero anzi strafare: l’Argentina vinse addirittura 6-0, volò in finale e conquistò la Coppa. Peccato averlo fatto in quella maniera: la squadra del Flaco Menotti avrebbe infatti potuto vincere anche senza aiuti. Del resto, in rosa c’erano alcuni autentici fuoriclasse (Kempes, Ardiles, Bertoni e Passarella) e molti buoni giocatori (Fillol, Tarantini, Luque, Houseman e Gallego). La verità è che chi organizza viene sempre trattato con un occhio di riguardo. Ma se non ha uno squadrone, il titolo di certo non lo vince.
Questa è l’undicesima puntata di una serie dedicata alla storia della Coppa del mondo di calcio che ci accompagnerà fino a novembre, nell’immediata vigilia di Qatar 2022.